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Storie di artisti di strada: la donna di Maurice

La donna di Maurice

di
Alessandro Ghebreigziabiher


Maurice non era più giovanissimo.
Le rughe, per quanto nascoste sotto il cerume, erano ogni anno di più, aumentando in maniera esponenziale di viaggio in viaggio.
La Francia sembrava così lontana quando si ergeva sul suo podio di legno e ordinava a tutto il corpo di divenire inerte all’istante.
La gente passava e lo ignorava, la gente si fermava ma non lo vedeva, la gente non passava e neanche avrebbe immaginato di trovarselo lì.
Nondimeno, in un istante come tanti, c’era sempre qualcuno che lo vedeva e sorrideva. Era immobile, pietrificato, quella ridicola imitazione di faraone egizio, vestito d’oro e con gli occhi azzurro scintillanti.
Eppure bastava un sorriso di uno sconosciuto per riscaldare il cuore nascosto dietro quella buffa mascherata e Bordeaux era magicamente ancora innanzi agli occhi. I prati verdi come non mai, altro che Irlanda, il vino vermiglio come il sangue, altro che Mar Rosso e l’oceano sulla costa, altro che California…
Stava per prendersi una pausa allorché la donna gli si avvicinò. Era bella. L’avresti potuta osservare da ogni angolazione e avresti comunque pensato che fosse bella. Era vestita elegante, con un decolté piuttosto generoso, malgrado un gelido autunno si fosse ormai imposto alla città.
Lei sorrise, lo fissò e sorrise con le labbra, gli occhi e le mani che presero le sue.
Maurice era confuso.
Non era uso contemplare la possibilità che una qualche gentile fanciulla lo potesse considerare come appetibile, oltretutto con un mero interesse verso la sua borsa, peraltro piuttosto leggera.
Aveva sì un costume che rendeva invisibile il suo viso tutt’altro che affascinante, il labbro leporino e gli occhi inespressivi, ma era pur sempre uno scricciolo d’uomo, dall’alto del suo metro e sessanta per cinquanta chili.
“S-Signora… c-cosa desidera?” domandò con voce turbata.
La donna accentuò notevolmente il sorriso di cui sopra e con lo sguardo indicò l’entrata dell’elegante albergo cinque stelle a pochi metri, con tanto di usciere in livrea sulla porta.
“N-Non c-capisco…” ripeté lui sincero.
La signora sembrò non ascoltarlo e per mano lo condusse nell’hotel.
Maurice, il mimo squattrinato francese che ormai da tre anni soggiornava di fronte all’esclusivo albergo, si trovò ad entrarci dalla porta principale, per raggiungere la suite presidenziale.
Sembrava un sogno ad occhi aperti, come era uso fare mentre, dritto e immobile innanzi ai passanti, immaginava le storie di quest’ultimi. Impiegati in pausa dalla propria vita, turisti in cerca di ricordi di cui nutrirsi, giovani in cerca di ragazze e le stesse con l’identico motivo. Un mare di anime intrappolate in corpi, giammai il contrario, come era nel suo caso. E così tutto rallentava e aveva finalmente il tempo di vedere le persone per quello che erano: creature inevitabilmente incomplete.
Questa era la vita che vedeva o che si figurava. Si sentiva l’unico che avesse trovato quel che desiderava ed era immensamente felice al pensiero che, in un mondo che non faceva che correre, gli fosse bastato rimanere fermo.
La donna lo accompagnò in camera da letto, lo fece accomodare sulla coperta che ricopriva il morbido materasso e si spogliò davanti a lui, mostrandosi in tutta la sua avvenenza.
Maurice era ancora mascherato e truccato ma ciò non gli impedì di emozionarsi allo spasimo. Per un attimo pensò di essere deceduto, immobile sul suo palchetto e che non si fosse mai mosso da lì, con gli occhi fissi e ormai vuoti sulla gente.
Questo doveva essere il personale paradiso che gli dei avevano progettato per lui.
Un attimo e la donna si avvicinò ulteriormente, a confermargli quest’ultimo pensiero, tranne per un piccolo ma non trascurabile particolare.
La voce squillante della vigilessa.
“Signore? Lei non può stare qui, raccolga la sua roba e se ne vada immediatamente.”
Maurice tornò bruscamente sulla terra, ovvero sul fido blocchetto di legno ma per la prima volta non si demoralizzò più di tanto innanzi all’ennesima cacciata dalla pubblica piazza.
Alla prossima sosta avrebbe ritrovato lei.
Perché era ancora vivo.
E perché c’era ancora il meglio da sognare…

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