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Storie di giocattoli: Qualcosa di rotto

Qualcosa di rotto


di
Alessandro Ghebreigziabiher


 
E se fosse un dono?
Questo pensò Alec, seduto in terra, solo.
Aveva appena pianto per Jack, il peluche che aveva osato lacerarsi sulle spalle a testimonianza della propria vulnerabilità.
La finzione sotto la pelle che non dovrebbe mai esser conosciuta del tutto.
La mano non vista, si dice così, il non è fondamentale, la magia ha bisogno dei non di questo mondo.
Non guardare tutto, non puoi e non devi guardare tutto, se non altro nel medesimo istante, altrimenti quello non è un universo di vita che soffre e ride, che adora e muore, e poi resuscita.
Ma solo un sottovalutato composto di carta e inchiostro.
Alec aveva dieci anni ed era un mostro, così aveva scherzato lo zio Claude.
Mistificazione tra le più comuni, quella di ritenere la semantica roba aliena alle imberbi menti.
Il più delle volte comprendono il senso che a te, navigato lupo grigio, è sempre sfuggito.
Talvolta ne intuiscono l’essenza invisibile, la sola che ti permetta di sommare le conseguenze sino alla pignatta d’oro.
Nondimeno, Alec era davvero un mostro.
Un bambino capace di mettersi nei panni di chiunque avesse davanti può generare paure ancestrali anche nel più impavido degli astanti.
Perché è un bambino, pensi.
E perché subito dopo ti figuri cosa potrebbe fare da grande.
Di quel che vede.
E se fosse davvero un dono?
La frase echeggia nella mente del ragazzino, mentre tenta di riportare le viscere dell’amato cagnolino di pezza sulla retta via.
Vedere, sì, è un privilegio.
Ma rimettere le cose a posto un istante più tardi è una responsabilità che in pochi si prendono.
Così capita che un’anima di appena dieci anni compia la scelta di una vita.
Un tempo era l’adolescenza l’età delle decisioni primarie.
Dove sedersi, con chi sedersi e, soprattutto, da chi tenersi lontano.
Difficile immaginarsi delle creature appena giunte in doppia cifra definire la società che verrà ed è forse per questo che la scuola dimostra ancora oggi di avere tanto da imparare da ciò che va in scena nel suo stesso ventre.
Alec si guardò in giro in cerca di qualcosa con cui serrare le ferita.
Lo scotch no, non è affidabile, lo sa bene il drago che ha perso la coda.
Non si è mai lamentato, peraltro, nonostante il ruggito abbia smarrito autorevolezza causa l’inevitabile indebolimento delle batterie.
La madre è ora sullo schermo, mentre rattoppa le ginocchia del jeans a velocità siderali.
Rimettere le cose a posto un istante più tardi è una responsabilità che in pochi si prendono.
E ci sono alcuni che lo fanno senza vantarsi, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Ti voglio bene, disse senza parole Alec cambiando canale.
Tornando alla diretta.
E’ se fosse un dono anche quello?
Alec prese tra le braccia il cane amato e facendo in modo che la vita rivelata non fuggisse via lo depositò con estrema delicatezza sul proprio letto.
Bellissimo, mormorò il bambino disegnando sul volto un inaspettato sorriso, deciso, tutt’altro che inconsapevole, sapiente di attimi assaporati senza risparmiarsi, cancellando del tutto il dolore di poco prima.
E’ un dono, scrisse Alec nel diario delle scoperte fondamentali.
E’ un indiscutibile dono intravedere meraviglia, l’unica che valga il prezzo del biglietto, laddove tutti gli altri vedano solo qualcosa di rotto.

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