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Il 68 spiegato ai ragazzi: il sogno delle zanzare

Il ’68 delle zanzare

di
Alessandro Ghebreigziabiher


Le zanzare sono da sempre, fra tutti gli insetti, quelli più odiati.
Anche il generoso amante degli animali non può negare di trovare difficoltà ad apprezzare queste piccole, rumorose e fastidiose creature che ci punzecchiano senza tregua dalla primavera all’estate, senza alcuna pietà.
Eppure non sono così cattive come sembrano.
Anzi, molti non sanno quello che accadde nella loro comunità nel secolo scorso.
Dovete sapere che, intorno alla fine degli anni sessanta, alcune sentirono il bisogno di cambiare la realtà.
Non si sa bene come tutto iniziò, tuttavia un giorno una di loro, uscita la sera per la solita scorpacciata notturna, tornò a casa al mattino a bocca asciutta.
Si chiamava Susanna ed era un’adolescente come tante.
Quando la madre la vide arrivare capì subito che qualcosa non era andata a dovere.
Infatti, come voi tutti ben sapete, se per strada avvistate di mattina una zanzara magra, con la vita snella, o fa la modella oppure la sera prima ha trovato la finestra chiusa.
Susy, come la chiamavano a casa, faceva scartare evidentemente la prima ipotesi, in quanto non aveva certo il fisico adatto. Carina era carina, ma l’altezza non era proprio secondo i canoni. Le alucce erano ben proporzionate ma non possedevano certo l’apertura elegante e vanitosa di una Naomi Zanzel o di una Monica Zanzucci.
Gli occhi, però, non temevano confronti.
Gli occhi di Susanna potevano far perdonare tranquillamente ogni mancanza al resto della sua comunque graziosa figura.
“Susy, cosa è successo?” fece la mamma. “Finestra chiusa, eh? Te l’avevo detto ieri di uscire prima, così saresti arrivata mentre cambiavano l’aria nella stanza. Che stress da quando hanno inventato queste dannate zanzariere.”
“Mamma…”
“Che c’è?”
“Non è stata la finestra.”
“Hai trovato occupato? E’ arrivata prima tua cugina Augusta? Eppure glielo avevo detto a mia sorella che il terzo piano è il nostro.”
“No, mamma, è che…”
“Ho capito: si è messo la crema. Ma tu non devi farci caso, sembra puzzolente, ma dopo un po’ che ti ci abitui non fa alcun effetto. Come quello stupido zampirone: puzza e basta, non fa nulla.”
“No, mamma, sono io.”
“Tu che?”
“Siediti un attimo che ti racconto con calma.”
La madre era piuttosto preoccupata, soprattutto di non aver idea di cosa avesse impedito alla figlia di compiere quello che poi era il dovere della loro specie.
In ogni caso obbedì e Susanna le spiegò: “Vedi, ieri non ho chiuso occhio tutto il giorno, ero agitata ma non sapevo perché. Mi sono rigirata continuamente nel letto e mi è venuto nel pomeriggio un gran mal di testa. La sera, quando sono uscita, ero tutta scombussolata e avevo lo stomaco completamente chiuso.”
“Non mi dire che hai preso un’altra cotta. Per caso hai rivisto quel moscone del figlio dei nostri vicini? Lo sai che non mi piace che lo frequenti.”
“Ma no, non ho visto nessuno. Mi sono diretta subito alla finestra, che tra l’altro era ben spalancata. Sono entrata velocemente e ho aspettato appoggiata alla parete. Nell’attesa però è successa una cosa strana, molto strana. Vedi, la parete non era proprio una parete. Gli esseri umani lo chiamano specchio. All’inizio non me ne ero accorta perché ogni mia attenzione era rivolta alla stanza, per evitare di essere sorpresa e fare la fine di zia Peppa, morta schiacciata dalla ciabatta.”
“Quante volte glielo avevo detto a Peppa: mettiti gli occhiali, mettiti quei dannati occhiali che ogni volta vai a cozzare contro il vetro…”
“Sì, è vero. Così, quando mi sono resa conto che era tutto tranquillo, ho rivolto lo sguardo su dove ero atterrata e ho visto me stessa, da sotto, dalla parte della pancia. Sai com'è uno specchio, no?”
“Ragazzina, vuoi spiegare a mamma com’è il mondo?”
“Scusa, ma’, non volevo. Ti dicevo, i miei occhi si sono fermati su quella me stessa capovolta e, ora so che ti arrabbierai, mi sono addormentata.”
“Cosa? Stai scherzando?”
“No.”
“Susanna, hai forse dimenticato le tre regole?”
“No, mamma, le so: non succhiare troppo, altrimenti ci si appesantisce e si vola lenti, evitare di planare su superfici bianche poiché l’uomo così ci individua facilmente e, soprattutto, mai addormentarsi.”
“Sì, ma non sono una canzoncina, le devi mettere in pratica.”
“Hai ragione, mamma, hai perfettamente ragione. Ma, sarà stato il sonno arretrato, la mancanza di appetito che mi aveva reso poco attenta, lo specchio sul quale non mi ero mai appoggiata, oh, mi sono addormentata come una libellula.”
“Incosciente! Tu vuoi farmi morire di crepacuore…”
“Aspetta, senti il resto: ho fatto un sogno. Ho fatto il più strano sogno della mia vita. Così strano che non sembrava nemmeno tale, pareva vero, come la vita.”
“Susanna… non è che hai preso qualcosa? Te l’ha passato quel moscone? Lo sanno tutti che quello sbandato fuma il ddt…”
“No, mamma, ti giuro che non ho preso nulla. Ho solo sognato.”
“Cara, guarda che anche tuo padre, quando eravamo giovani, venne in ritardo ad un appuntamento e con le ali tutte stropicciate, dicendo di essersi addormentato e di aver sognato. Poi è uscito fuori che si era bevuto mezzo litro di amarena. Con questo scherzo ora si ritrova il diabete.”
“Ma quale amarena? Ti sto dicendo che ho solo fatto uno strano sogno. Vuoi sentirlo?”
“Vai, racconta.”
“Ecco, ad essere precisa io parlo di sogno perché solo questo può essere quello che ho visto. Ad un tratto la mia immagine riflessa si è allontanata da me, come se dall’altra parte dello specchio ci fosse stato un altro mondo, diverso dal nostro. Ho visto me stessa volare come non ho mai volato. In alto, dove non sono mai stata. Tu non immagini, mamma, quanto è grande il cielo. Tu non immagini quante creature volano come noi. Miliardi, ma che dico, di più, non si possono contare. Di tutte le forme, colori, grandezze, ognuna con una voce diversa, con una vita diversa. Eppure, sembra che nessuna di esse si renda conto di quale dono sia veramente volare. Eppure, basterebbe poco, sarebbe sufficiente accorgersi di quanti altri esseri non ne hanno la possibilità. Tanti, in molti più di noi, sono giù, incollati alla terra, in pericolo di essere schiacciati in qualsiasi momento. Non voleranno mai, possono solo sognare di farlo, possono convincersi che magari un giorno si sveglieranno con le ali e si solleveranno in alto, ma nel frattempo sono lì, e camminano, corrono, e camminano, e corrono, ma non volano mai.
“Poi ho visto noi, tu, papà, e tutte le zanzare. Ho visto voi volare con me e scoprire insieme che non serve altro, che è bello vivere sognando di notte e librandosi nel cielo di giorno, che è la cosa giusta.
“Soprattutto che il sangue dell’uomo non ci serve, che ci si può nutrire d’altro. E che quindi non ci servono le tre regole. Che non ci servono proprio le regole.
“Che non occorre aver paura se si riesce a volare davvero.
“Ma soprattutto ho sentito dire da ogni creatura della terra che le zanzare sono esseri fatti per levarsi in alto e celebrare questo dono ogni giorno e non quegli odiosi insetti che vivono sulle spalle dell’uomo.
“In quel momento mi sono svegliata.
“E la sai una cosa? Era mattina e il ragazzino che avrei dovuto pungere quella notte era fermo davanti a me e mi fissava, con ancora indosso il pigiama. Ho sentito l’impulso di fuggire via ma non l’ho fatto e sono rimasta immobile, ferma.
“Sai cosa è successo?
“Il ragazzino non mi ha fatto nulla. Anzi, mi ha sorriso e se ne andato.
“Ed eccomi qua. Mamma, non mi sono mai sentita bene come ora…”
La madre di Susanna era a bocca aperta, con le ali dischiuse e tremanti sopra la testa.
Balbettando vistosamente, mormorò: “S-Susy, te lo richiedo con calma: hai fumato quel ddt?”
“No, mamma, non c’è n’è stato bisogno.”
“Devo parlare con tuo padre.”
Il papà di Susanna accolse ancora peggio il racconto della figlia e per precauzione decise con la moglie di proibirle per un mese di uscire di casa, portandole la razione di sangue direttamente in camera.
La piccola zanzara, tuttavia, non ne toccò una goccia, poiché qualcosa era definitivamente cambiato.
Passato quel mese, infatti, Susanna se ne andò di casa.
Quello che intraprese fu un viaggio particolare, intenso, bello e triste allo stesso tempo.
All’inizio sembrava simile al meraviglioso sogno che aveva fatto quella notte e sapeva di magico ma, col tempo, tante, troppe volte si accorse di quante crepe vi erano in quello specchio.
La cosa bella fu che conobbe tanti come lei, che avevano fatto lo stesso identico sogno e anche questo sembrava un miracolo, ma ciò non bastò a tutti loro per trovare la forza di accettare che la realtà di ogni giorno non era proprio come quella riflessa nei sogni di una notte.
Tuttavia, non si fermarono, continuarono a volare, convincendosi che il segreto fosse ignorare tutto ciò che smentiva quel perfetto disegno impresso dallo specchio nel loro cuore.
Caddero, tanti caddero come ciechi, come la zia Peppa che non voleva portare gli occhiali.
E così terminò anche il viaggio di Susanna.
Fu trovata morta, proprio sopra uno specchio, schiacciata, come se avesse lei stessa stirato le sue membra nell’utopico tentativo di passare dall’altra parte.
In seguito, alla fine di quel folle volo, qualcuno ne approfittò.
Fin da quegli anni si sentiva parlare di loro.
Osservarono gli eventi in silenzio, odiando e disprezzando quelli come la piccola zanzara.
E col tempo, grazie al silenzio del dolore, il rumore della sconfitta e il trionfo della paura e della realtà di sempre, con il rinnovato fulgore delle sacrosante tre regole, esse si imposero come modello per tutti.
Veloci, piccole ma silenziose. Non più quell’assordante canto ormai riconosciuto facilmente dalla vittima di turno. Efficienti, furbe, aggressive e difficilmente distinguibili l’una dall’altra.
Tutte indistintamente con indosso una divisa a righe.
Al giorno d’oggi sono loro a dettare legge.
Le conoscete, no?
Le chiamano zanzare tigre.
Tuttavia non sono invincibili e una ciabattata le può uccidere sul colpo facilmente, tanto come quelle di un tempo.
Rimane una domanda: cosa sarebbe successo se Susanna e le altre avessero avuto la forza di accettare il fatto che la vita può essere come uno specchio, un bellissimo e meraviglioso specchio eppur ricoperto di tante, tantissime crepe e che è bella proprio per questo?
Cosa sarebbe successo se fossero state capaci di accettarlo?
E cosa succederà se un giorno riusciranno a farlo?


Racconto pubblicato nel 2008 su "Voci dal silenzio", Comune di Ferrara

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