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Storie sui libri: gli spiriti deboli

Gli spiriti deboli

di
Alessandro Ghebreigziabiher

Da qualche parte, là fuori, ovvero oltre i confini di un’immaginazione addomesticata, esistono altri
Alessandro Ghebreigziabiher
mondi, oggettivamente diversi dal nostro, talvolta troppo innocui per essere riconosciuti come tali, spesso troppo belli per essere ritenuti veri.
La maggior parte di essi sono temuti, qualora ancora sconosciuti ai più e l’invasione della nostra vulnerabile esistenza è uno dei pericoli maggiormente paventati.
Ebbene, in uno dei rari casi dove i timori sono più che fondati, ha inizio questa storia.
Per la precisione, nella cella di una prigione.
All’interno di essa ci sono tre spiriti.
Tre disonorevoli membri della tenebrosa schiera delle anime malefiche e assetate di vite da occupare e gente da manovrare a piacimento.
Che dire, creature ignobili e per fortuna soprannaturali, quindi mai viste da noi, cribbio.
Pare vero.
Pare tutto vero, questo è il bello dei racconti improbabili, dicono.
A ogni modo, i tre spiriti sono davvero dei falliti, all’interno della loro società.
Colpevoli della più deprecabile incapacità, va detto.
Quella di non riuscire a possedere l’umano.
“Credo di dover cambiare avvocato, cavolo
, fa uno dei detenuti, senza smettere di aleggiare nervoso nella cella. “Penso proprio di aver subito un processo ingiusto. Cavolo che sì.”
Cavolo che sì?” salta su uno dei due compagni di prigionia, seduto in terra e alquanto infastidito dall’altro. “Di che cavolo blateri, piuttosto. Tu qui sei la vergogna della categoria, forse l’unico che andava rinchiuso prima di gettare la chiave. Quell’altro, che non smette di fissare l’esterno attraverso le sbarre della finestra, sarebbe solo da internare in una clinica per spiriti dementi, ma tu sei un vero abominio, ovviamente, ovvio, sì.”
“Cavolo, addirittura? Che ci posso fare se amo quelle bestioline? Da quando essere un animalista è un abominio?”
“Anche io amo gli animali, amico, ma non mi sono mai sognato di andare a infestare cagnolini, pappagalli e criceti. Qual è l’ultimo che hai posseduto?”
“Cavolo, tu non puoi capire… era così elegante. Essere un’iguana è stata l’esperienza più appagante della mia vita…”
“Un’iguana? Appagante essere un’iguana? La sedia elettrica, dovrebbero darti, ovvio, ovviamente che sì.”
“Cavolo, parli tu?”
“Io che?”
“Bello, almeno io ho scelto qualcosa di vivo…”
“Ecco, sei come tutti, il solito retrogrado, ovviamente, è ovvio, sì. Oramai i cellulari sono vivi a tutti gli effetti. Le persone ci parlano e li ascoltano, ne hanno cura come se fossero figli o amanti, li aiutano a crescere con amorevole attenzione con i vari aggiornamenti e a ogni malattia, dicesi virus, sono puntuali nell'intervenire con la giusta medicina. E quando si rompono, ovvero muoiono, piangono lacrime sincere e non smettono mai di ricordare il caro estinto.”
“Cavolo, tu dai del demente a quello lì, ma anche tu sei fuori, lo sai?”
“Non ti permetto di paragonarmi a quel pazzo, amico delle iguane! Lo sai che cosa si dilettava a possedere quel mentecatto?”
“Cavolo, cosa?”
“Libri.”
“Libri?”
“Sì, libri, quell’inutile e inerte ammasso di cellulosa e inchiostro.”
“Cavolo… speriamo che non sia pericoloso…”
“Non credo, l’hai visto anche tu. Da quando l’hanno ficcato qui con noi altri non ha mai smesso di mostrare quel sorriso perenne e gli occhi trasognati, come se invece che in cella fosse in vacanza.”
“No, cavolo, meglio.”
Come se fosse libero...


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