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Tutto in una notte

Tutto in una notte


di
Alessandro Ghebreigziabiher


È giusto.
C’è qualcosa di giusto, in tutto questo. Nel senso che deve andare così, va accettato.
È quel che ho cercato di spiegare ai bambini, quando hanno appreso che la sera, quella sera, e soprattutto la notte, quella notte, sarei stato di turno.
Sono l’ultimo arrivato, e sono anche il più giovane.
Ti tocca, hanno detto.
Mi tocca, ho obbedito.
Perché questo sembra il senso del destino già scritto: devi accogliere e ricavare il meglio da ciò che arriva.
I figli ci sono rimasti male e me l’hanno fatto capire in tutti i modi possibili.
Mia moglie ha dato il suo meglio per fare il contrario, ma so già da me che ne ha sofferto anche di più, per mille e altri motivi.
Tra essi, il fatto che aspettiamo il terzo principino, che è poi una principessa, e peraltro manca appena un mese alla fine della corsa.
Inoltre abbiamo da poco cambiato casa, tutto è nuovo, dal quartiere ai vicini.
E quando il mondo ti è estraneo e insolito, diverso e sconosciuto, hai bisogno di avere accanto le persone a cui tieni maggiormente.
Ciò nonostante, mi sono sforzato di rassicurarli che al mio ritorno, all’indomani, saremmo stati bene come mai prima.


Alessandro Ghebreigziabiher

Non è il desiderio di tutti, inciso all’orizzonte?
Così, sono andato in questura nel tardo pomeriggio e ho iniziato il mio turno.
Dopo aver gustato uno spuntino veloce per cena, la mia collega e io abbiamo avuto il nostro primo incontro.
Uno di loro, già.
Pelle olivastra, barba grigia cresciuta in modo del tutto disordinato, abiti trasandati e soprattutto un’espressione vacua, a tratti assente.
Vagava con due buste di plastica piene di stracci sulla tangenziale, la motivazione del fermo, oltre alla consueta assenza di regolare documento identificativo.
Il soggetto, essendo in serio stato di confusione, non è in grado di rispondere alle domande, la mia concisa conclusione. E via alle abituali due mandate di chiave.
Chissà da dove viene, questo, si chiese la collega, anche lei novizia.
Chissà chi è, questo, la domanda che entrambi non ci poniamo.
Perché non è il nostro lavoro, dicono.
Ma, dopo tutto, esiste una professione che abbia il compito di capire chi siamo davvero?
Non ebbi il tempo di perdermi in ulteriori voli pindarici, perché il numero preferito sul cellulare azionò la suoneria.
È stato bello parlare con i bambini e mia moglie, ma anche struggente.
Ho intuito le lacrime dietro le parole, e nel medesimo istante ho avvertito le mie affiorare dalla superficie del cuore.
Sì, lo so, a volte risulto eccessivamente melenso.
È che da giovane avrei voluto fare il poeta romantico, ma poi la crisi, i licenziamenti in massa in famiglia, ed eccomi a seguire il consiglio paterno.
La divisa ti può sfamare, le rime no, sentenziò papà un giorno tra i più amari.
A ogni modo, più tardi abbiamo ricevuto la nostra seconda visita.



racconto di natale

Una ragazza dell’est Europa, credo, trovata semi svenuta su una via di norma segnata dalla presenza di prostitute.
Gli abiti succinti confermano tale ipotesi, scrissi a riguardo nel rapporto. E, come per il precedente caso, annotai la difficoltà nel reperire informazioni sull’identità della donna, la quale non faceva che bofonchiare cose prive di senso.
Nondimeno, altri due giri di chiave e anche questa pratica fu chiusa.
In quel momento ho approfittato della generosità della collega che aveva portato il ciambellone preparato dalla madre.
Mancava un minuto alla mezzanotte, tutto era calmo, mentre gustavamo la nostra porzione.
Strano sapore, pensai, dolce sul palato e tutt’altro lì dove si colgono i retrogusti del vivere.
Pochi secondi al nuovo giorno e il cicalino sul telefono mi ha invitato a leggere gli auguri di mia moglie.
Ricambiai con tutti cuoricini e i sorrisi che riuscii a disegnare.
Allo scoccare della mezzanotte abbiamo udito il pianto.
Ovvero, il terzo e ultimo incontro di quella sera.
Siamo corsi entrambi all’entrata della questura e abbiamo visto il fagottino urlante.
Il bimbo di pochi mesi, dai tratti visibilmente orientali, è avvolto in una copertina di fortuna all'interno di una scatola di cartone, la sintetica descrizione della scena e del relativo resoconto.
L’abbiamo subito portato dentro e la mia collega, malgrado non abbia figli, con notevole maestria l’ha preso in braccio e ha iniziato a calmarlo seduta accanto al termosifone.
Ecco, questo è stato il mio turno, raccontai il mattino seguente al parentame aggiuntosi alla mia famiglia per il rituale pranzo.
È successo tutto in una notte.
Ovvero, è stato il tempo in cui è accaduto tutto quel che avviene in ogni istante che ci sfugge, oltre i confini del rassicurante quadro personale.
Come quello de la notte di natale.
È sbagliato.
C’è qualcosa di sbagliato, in tutto questo. Nel senso che non dovrebbe andare così e mai dovrebbe essere accettato senza porsi domande, evitando di protestare o solo discutere.
Perché è un giorno speciale, questo, ho cercato di spiegare ai miei cari seduti intorno alla tavola imbandita subito prima di scambiarci i regali.
Ma vedo il bel presepe che abbiamo sistemato accanto all’albero, più mi soffermo sulla grotta, più guardo Maria, Giuseppe e il bambinello.
E più penso a quelle tre vite disgraziate della notte appena trascorsa.
C’è qualcosa di giusto nel celebrare i lieti eventi, è un dovere esser felici di quel che si ha quando lo si ha, perché non va sempre così, su questo non ho dubbi.
Ma c’è anche qualcosa di tremendamente sbagliato, sotto.
E quando le feste finiscono, forse, avremmo il dovere di fare qualcosa a riguardo.

 
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