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Storie di ragazzi: Andrea che non era abbastanza

Andrea che non era abbastanza

di
Alessandro Ghebreigziabiher


“Vede, signora”, fece l’insegnante con tono paterno. “Non è che suo figlio non si applichi, tutt’altro. E’ che non ce la fa a fare di più, ecco. Il livello è quello, ma non è abbastanza.”
Così, tornai a casa afflitta.
E così, alla fine dell’anno Andrea fu bocciato in prima media.
Qualcuno dirà che l’intelligenza non è tutto nella vita.
C’è altro, deve esserci.
A trovarlo, avrebbe detto Matteo, mio marito.
L’aveva presa così, il padre, con sarcasmo e cinismo, i più facili accorgimenti per gestire i propri fallimenti. Perché così vedeva nostro figlio: un fallimento su tutta la linea.
A riprova di ciò, l’amara scena del ricevimento genitori a scuola si ripeté in modo praticamente uguale in altri ambiti.
“Ma non lo convocate mai per la partita?” chiesi un giorno all’allenatore di basket, dopo almeno due anni di frequentazione della palestra.
“Vede, signora…”
Ogni volta che qualcuno inizia una frase con vede signora non è in arrivo nulla di buono, pensai ma non dissi.
“Suo figlio si impegna, corre molto, anche più di altri, arriva sempre con la maglia incollata alla pelle per il sudore alla fine dell’allenamento, ma per la partita io devo chiamare i più forti, lei capisce.”
Lei capisce suona come vede signora.
Quindi la sentenza: “Suo figlio ci mette tutto quello che ha, ma non è abbastanza.”
Ciò malgrado, secondo un copione inevitabile, continuai a incoraggiare Andrea, cercando di infondergli in ogni istante sicurezza e apprezzamento per se stesso.
Per le sue qualità.
Ad avercele, l’eco del Matteo pensiero.
Il giorno che lo vidi più triste, fu quando tornò a casa un piovoso sabato pomeriggio d’autunno.
Aveva diciassette anni, il viso tempestato di brufoli e tutto il resto. Capelli appiccicati perennemente sulla fronte da uomo pesce altrettanto incessantemente ubriaco, occhi minuscoli da topo spaurito, naso a becco di tucano confuso, mento per i capperi suoi e denti storti da pipistrello cieco davvero. Atro che radar, quindi, reduce da innumerevoli zuccate sul duro di turno, da cui l’irregolarità mandibolare.
Lo trovai seduto sul letto nella sua stanza, con un’espressione afflitta e una rosa maltrattata tra le mani.
“Cosa è successo, caro?” chiesi entrando prima di sedermi accanto a lui.
“Vede, signora…”
Ops, mi correggo, anche se il risultato non cambia.
“Vedi, mamma, oggi ho chiesto a quella compagna di classe che mi piace di mettersi con me.”
“Bravo”, esclamai ben consapevole di come fosse andata, per dargli comunque il mio supporto. “E lei cos’ha detto?”
“Ha detto che sta bene con me, che mi trova simpatico, che la nostra è solo un’amicizia, ma che per mettersi insieme non è abbastanza.”
Non aspettatevi luce all’orizzonte per il mio Andrea, ve lo dico subito.
Provò l’università, ma in tre anni fece un solo esame. Ancora mi chiedo come abbia fatto.
Lavoro, manco a parlarne. Ha collezionato licenziamenti e lettere di rifiuto come le figurine dei calciatori.
Non è mai stato abbastanza per nulla, il mio adorato figlio.
Finché la sfortuna ha smesso di infierire su di lui nell’ultimo paragrafo della sua esistenza, poiché un male incurabile lo ha condannato a un mese di vita.
Inutile dire con quali due parole il medico iniziò il discorso con cui mi comunicò la tragica notizia.
Nondimeno, quel mese è stato il periodo più bello che ha vissuto.
E anche il mio, lo dico ancora oggi che sono vecchia.
Forse perché in quei giorni ci siamo permessi entrambi di fregarcene dei vede signora e lei capisce. Ma, soprattutto, perché alla fine del nostro comune viaggio abbiamo compreso che quel che conta davvero nella vita è ciò che è abbastanza.
Per noi.
Ah, dimenticavo. Andrea ha donato i suoi organi e oggi una ragazza della sua stessa età è ancora viva grazie a lui.
Perché talvolta capita che ciò che non era abbastanza per tutti.
Diventi tutto per qualcuno.


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