Tempo fa, per alcuni anni ho abitato nei pressi del quartiere Alberone, a Roma, dove qualche giorno
addietro è caduto l'albero che ne è (era?) simbolo.
Era il 2003, se non erro, quando scrissi un racconto ispirato da quella pianta così importante per la storia di quel frammento di città, immaginando proprio la scomparsa dell'albero a causa del maltempo.
Nuovo albero, nuovo nome per il quartiere.
Nella versione originale la colpa era di un fulmine, quindi l'ho leggermente adattato, ma la storia è rimasta la stessa.
Ecco a voi...
“Commissario, posso disturbarla?” chiese l’agente Gennaro Donato, quel mattino di novembre del 2019.
“Dimmi pure”, rispose Francesco Cuconato, commissario capo della stazione di polizia di Alberoide, noto quartiere di Roma.
In realtà avrei dovuto dire Alberoide ex-Alberone.
Quindi, se permettete, vorrei rendere omaggio a quell’ex.
Sull’Alberone:
L’aneddoto non è poi così complicato, anzi è molto semplice, sebbene estremamente significativo.
Più di ottant’anni addietro, sempre a novembre, una pioggia torrenziale che durò quasi una settimana aggredì la capitale.
Tre fratelli, Mirko, Davide e Mauro, rispettivamente di sei, otto e nove anni, tornando da scuola si trovavano in quei giorni proprio nei pressi dell’albero che dava il nome al suddetto quartiere.
La madre non era potuta venire a prenderli all’uscita poiché la quarta figlia, la più piccola, aveva la febbre alta a causa della rosolia.
Ebbene, i tre ragazzini, stretti e ben imbacuccati sotto uno striminzito ombrello, furono sorpresi da un violento temporale misto a grandine, peraltro armata di chicchi da distruzione di massa.
Fu Mauro a suggerire la presunta via di fuga.
“Saliamo sull’albero, svelti.”
Nell’istante stesso in cui la pioggia si fece a dir poco brutale, il piedino del fratello più piccolo, Mirko, era stato tirato a bordo.
Ai tre piacque così tanto quella nuova sistemazione che vi rimasero per ben tre giorni, mentre i temporali proseguirono nella loro pratica flagellatrice.
La madre passò quelle ore senza dormire e senza mangiare mentre le ricerche dei tre bambini scomparsi continuarono senza sosta.
Il quarto giorno smise di piovere e i tre, col favore del sole, scesero dall’albero e tornarono a casa, allegri e spensierati, come di ritorno da una piacevole gita scolastica.
La mamma li abbracciò per un giorno intero, ogni volta che se li vedeva passare davanti. La loro storia fece subito il giro della città, con quel potente mezzo di comunicazione che è il passaparola, altro che Facebook, e da quei giorni, in ricordo del fortunato episodio, la donna ribattezzò il quartiere Sant’Alberone.
Ho fatto presto, visto? Ancora più facile sarà per me spiegare l’origine di Alberoide, definizione tuttavia non molto gradita alla giunta comunale, la quale preferisce New Alberone.
Su Alberoide:
Cinque anni fa, ancora una volta la pioggia decise di giocare al Deus ex machina con una comunità, e un albero che un tempo rallegrò la vita di tre bambini si dissolse.
Il fatto colpì tutti, indistintamente, e gli assessori si riunirono per rimediare al grave lutto.
In verità, ci fu qualcuno che propose la soluzione più naturale, e cioè piantare un altro albero, nondimeno, l’atteggiamento più in voga e per questo vincente del momento si fece sentire: lungimiranza.
Fu quindi l’assessore Gremese che propose l’idea vincente: “Facciamo costruire sulle ceneri della defunta pianta un albero artificiale con una lega di acciaio e carbonio, utilizzata per i sommergibili giapponesi. Il progetto sarà costoso ma il nuovo albero risulterà indistruttibile e resisterà ad ogni cataclisma.”
Gremese, ovviamente, non omise che suo fratello dirigeva una fabbrica che stringeva importanti affari con una nota industria di sottomarini del sol levante.
Tuttavia, la lungimiranza è un dono e chi lo possiede, e che soprattutto grazie ad essa aiuta molti di noi con estrema generosità e senso civico, è giusto che ne goda in prima persona i benefici.
Di conseguenza l’albero meccanico fu costruito in due giorni e il quartiere divenne Alberoide.
“Commissario, la situazione è ingestibile. Qui fuori ci sono centinaia di persone anziane. Vecchi, insomma. E ne continuano ad arrivare.”
“Calma, Donato, calma. Vi siete fatti spiegare che è successo?”
Cuconato, nel frattempo, non si era neanche mosso dalla scrivania.
“Commissario, è questa la cosa strana. Sembrano tutti impazziti.”
“Si spieghi meglio”
“Ecco, il primo è arrivato poco dopo l’alba. Si chiama Parisi Mirko, circa ottant’anni, e si è presentato chiedendo di sporgere denuncia, denuncia di un furto.
“Fin qui tutto a posto anche se il collega Agresti ed io notammo subito il sorriso e l’allegria con i quali l’anziano signore ci informava del motivo della sua venuta.
“In ogni caso, lo abbiamo fatto accomodare e ci ha raccontato il fatto.”
Il fatto, qualche ora prima:
Mirko: “Stanotte sono stato derubato.”
Donato: “Cosa le hanno rubato?”
Mirko: “I sogni. Tutti i sogni che mi erano rimasti.”
Agresti: “C-Cosa ha detto?”
Mirko: “Cos’è, sordo? I sogni, mi ha rubato tutti i sogni.”
Donato: “Certo, i sogni! Agente Agresti, ma non ha capito? Qualcuno ha rubato i sogni al signore…”
Agresti: “Ah, i sogni! E chi è stato, eh? Chi si è permesso?”
Mirko: “Non fate i sarcastici, non potrò mai smettere di ringraziarlo. E’ stato Robin Dream.”
Donato: ”Robin che?”
Mirko: “ Ma che è sordo anche lei? Robin Dream: ruba i sogni ai vecchi per donarli ai bambini.”
Agresti: “Ma tu guarda questo Robin Dream. Se lo acciuffiamo…”
Mirko: “No! Voi non dovete fargli del male. Lui è stato così buono.”
Donato: “Come buono? Ma l’ha derubata, no?”
Mirko: “Sì, finalmente. Finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di prendermi i sogni che nascondevo. Io non c’ero mai riuscito da solo. Troppa paura. Che idea, poi, donarli ai bambini: gli unici in grado di liberarli, di dar loro un’altra possibilità.”
Agresti: “Mi scusi. Ma lei, questo Robin, vuole denunciarlo o no?”
Mirko: “Sì, ma non per farlo arrestare. Perché voglio incontrarlo, abbracciarlo e dirgli grazie. Lo devo a lui se ora non ho più paura.”
“Mirko…” fece Cuconato. “Mirko Parisi… ma certo! Mirko, il più piccolo dei tre ragazzini saliti sull’albero. Lei non se lo ricorda Donato, è troppo giovane. Quante volte mio padre mi ha raccontato la storia. Dev’essere uscito fuori di testa, poverino.”
“Commissario… il problema è che forse sono usciti fuori di testa tutti i vecchi del quartiere. Sì, perchè ognuno di loro ha sporto la medesima denuncia: il furto dei sogni, Robin Dream, ecc. Il tutto con gioia sul viso.”
“Ma non è tutto – riprese - gli anziani sono ancora a centinaia qui fuori e dicono che non se ne andranno finchè non troveremo il ladro, Robin, insomma.”
Il commissario rimase incollato alla poltrona, senza saper cosa pensare e dopo pochi istanti si alzò e si affacciò alla finestra dell’ufficio, che dava proprio sullo spiazzo antistante la centrale. Quello che vide confermava ampiamente la descrizione dell’agente. Un mare, un vero mare di anziani ricopriva strada e marciapiede. C’era chi giocava a morra, chi a carte, chi addirittura allo schiaffo del soldato. Sembrava una sorta di sagra di paese. Solo molto più allegra, molto di più. Quindi prese un megafono e si affacciò. Poi, dopo aver preso fiato, disse alla folla: “Signore e signori. Vi prego, un attimo di attenzione. Sono il commissario Cuconato – e lì partì un applauso inaspettato – ehm…volevo darvi la mia garanzia personale che faremo il possibile per trovare questo Robin Dream. Appena sapremo qualcosa sarete tutti avvertiti, abbiamo i vostri dati – altro scrosciare di mani – perciò vi chiederei gentilmente di tornare alle vostre abitazioni, in modo da lasciar libera la circolazione sulla strada.”
Pochi secondi e tutta la canuta folla, dopo aver salutato educatamente il commissario, si allontanò in buon ordine, come un’enorme scolaresca dietro alla propria amata o temuta maestra.
Cuconato rimase sorpreso dalla facilità con cui aveva ottenuto il primo risultato e richiuse la finestra. In quel momento cominciò davvero quella particolare giornata. Essa nasceva con una promessa e quando la si fa ad un vasto numero di persone, che ripone in noi altrettanta fiducia, per quanto cerone si possa mettere sul proprio viso è difficile stare tranquilli.
Cuconato, il cerone, neanche lo usava. Non aveva altra scelta: doveva trovare Robin Dream.
Dalla mente di un solerte poliziotto:
Prima domanda: come si fa ad arrestare un ladro che non si crede reale?
Questa è la questione più difficile da affrontare. Sì, perché stiamo parlando di un solerte poliziotto. Non ho mica detto poliziotto e basta. Fino a prova contraria, solerte ha come sinonimi, tra gli altri: zelante, premuroso, indefesso, tutta roba tosta.
Il manuale e l’esperienza decennale non suggerivano alcun precedente ed insegnamento di sorta. Occorreva improvvisare, dare vita a nuove strategie. In fondo, questo affascinava e stimolava immensamente il Cuconato. Ma voi ci pensate a cosa provasse un commissario di un quartiere tranquillo come Alberoide ogni volta che accendeva la televisione e assisteva alle coraggiose gesta di ispettori ed investigatori di ogni arma possibile mentre sventavano pericolose rapine e svelavano intricatissimi misteri con acume straordinario? Perfino un cane pastore tedesco ci si era messo a fare il commissario e era ormai un eroe, soprattutto per Pierpaolo, suo figlio di nove anni.
Cosa provava? Rosicava.
Sì, avete capito benissimo. Rosicava alla grande ed era anche un po’ arrabbiato con la tv.
Perché non raccontavano mai la vera realtà di una stazione di polizia?
Da loro non c’erano di certo eroismi tutti i giorni, ma non per questo la sua squadra era meno degna di attenzione e rispetto. Tuttavia, stavolta l’occasione era allettante, eccitante e splendidamente fuori dall’ordinario.
Fu per questo che la mente di Cuconato scelse proprio l’alternativa meno logica ma esattamente secondo la procedura: Robin Dream esisteva perché qualcuno, anzi molti, l’avevano denunciato.
Seconda domanda: Come inizia un’indagine su un ladro che non esiste ma a cui si vuole teneramente credere?
A questo punto la strada si fa più semplice. Già, perché nonostante qualche brandello della sua ragione cercasse di dissuaderlo, in un certo qual modo la sua scelta l’aveva già fatta.
Come si comincia quest’indagine, allora? E’ banale: si va ad interrogare i testimoni del fatto criminoso. Incredibile, o reale che fosse, essi erano sempre dei testimoni e questi sono sempre i compagni di viaggio migliori per arrivare alla verità.
“Donato. Mi dia l’elenco dei derubati”, disse con palese fretta.
“Subito” rispose l’agente porgendoglielo.
“Io esco” aggiunse il commissario leggendo il foglio che aveva in mano.
“Vuole che l’accompagno?”
“No, grazie. Ne avrò per molto, credo…”
Cuconato prese la macchina e iniziò la caccia al ladro più strana della sua carriera.
Testimone numero due: Andrea Ghebellini, commercialista, classe 1926:
“Signor Ghebellini, è la polizia. Sono il commissario Cuconato”, disse alla porta del secondo testimone. Il primo della lunga lista, Mirko Parisi, se l’era lasciato per ultimo. Così, senza un motivo preciso. Lo aveva fatto e basta.
“Un attimo…” rispose dopo un paio di minuti l’anziano inquilino dell’appartamento di vastissimi sessanta metri quadrati nel cuore di Alberoide.
La casa era a disposizione di tutto e solo il tempo di Andrea, la cui moglie aveva accelerato improvvisamente dieci anni prima, durante la loro armonica corsa, a causa di un dannato tumore al seno.
“Buongiorno”, fece il commissario vedendo aprire la porta, “sono Cuconato, le volevo fare qualche domanda sul furto da lei denunciato questa mattina.”
Il viso dell’uomo si illuminò, per quanto potesse farlo ulteriormente. Sì, perché Ghebellini aveva aperto la porta con un viso già di suo acceso ed emozionato.
“Prego, Cuconato, si accomodi, le faccio strada in salotto.”
“Ma lei stava stirando”, osservò il poliziotto notando la tavola con il ferro ancora caldo. “L’ho disturbata, mi scusi.”
“Ma no, non si preoccupi. E poi ho già finito. Guardi, è ancora come nuova.”
Andrea mostrò al nuovo arrivato la sua maglietta. La mitica numero quattro.
Sul numero quattro:
Ci sono tanti modi per vivere da numero quattro. C’è il centrale davanti alla difesa, un vero responsabile del centrocampo, un uomo di frontiera, che raccoglie direttamente la sfera dal libero, il capo dei difensori, per offrirla ai registi, coloro che creano il gioco, che danno la giusta forma alla palla, affinchè rotoli il più lontano possibile dalla propria porta.
Poi c’è il mediano di spinta. Lo stantuffo, il pistone, il portatore d’acqua, l’uomo di trincea dimenticato dai riflettori che strenuamente e stoicamente sacrifica ogni centimetro delle sue robuste gambe per la causa, la vittoria, unicamente essa, altro che sportiva partecipazione.
Infine c’era Ghebellini: il trattore, il frangiflutti, il frullatore di ossa fragiline, la valanga di fango e scarpini, l’amante della scivolata maligna, quella senza toccare terra, per intenderci. Poteva riempire un’intera collezione di francobolli ma con al posto di essi cartellini gialli e rossi, raccolti su tutti i campi della città.
“Ma non se la ricorda? La S.C.S., Scuola Calcio Sant’Alberone! Sono passati più di sessant’anni. E sa la novità? Questa mattina ci siamo ritrovati tutti e alle due di questo pomeriggio sfideremo i nostri eterni rivali. Ci hanno sempre battuti.”
Cuconato avvertiva un impulso irresistibile a lasciar andare una risata di fronte a quel vecchietto che sfidava le leggi di gravità per quanto tremasse, mentre, con la maglietta che danzava tra le sue mani malferme, come una bandiera rossa che segnala mare agitato, annunciava il proprio imminente ritorno al calcio giocato.
Eppure, qualcosa lo aiutò a rimanere serio.
La stessa, probabilmente, gli fece trovare la giusta e sincera attenzione per chiedere all’uomo: “Senta, mi racconta quello che è successo stanotte?”
Ghebellini sorrise, si mise sulle spalle la gloriosa maglia e invitò il poliziotto a sedersi sul divano. “Prego, commissario. Io ho tutto il tempo che vuole per ricordare stanotte.
“Tutto il tempo per ripensare a ciò che potrà farmi stare meglio ora e più che mai domani.”
Un quarto d’ora più tardi Cuconato era all’esterno del palazzo. Si era fermato lì, con la porta, una storia e una vita alle spalle.
Quel giorno, in quell’attimo, quei tre doni erano pronti per essere scartati nel cuore del commissario. Una vita, una storia e una porta, dietro alla quale egli aveva trovato il primo indizio su uno strano ladro chiamato Robin Dream.
Testimone numero tre: Elena Palmiri, commerciante in pensione, classe 1924:
La porta di casa della signora Elena era aperta.
Erano aperte anche tutte le finestre e perfino il vecchio lucernario era dischiuso.
Ma non solo. Erano spalancate le ante degli armadi, i cassetti del fascinoso comò marrone erano tutti in bella esposizione, svelando ogni segreto dimenticato.
Il frigorifero stesso illuminava la cucina, con le fauci affamate che sbavavano su un misero yogurt magro mentre il forno si apriva al mondo senza necessariamente doversi esibire nella sua arte cuocitoria. E così via, ritrovavano la luce scatole di scarpe rubate al loro scopo d’origine, lettere imprigionate da buste ormai in pensione, segnalibri finalmente risparmiati da centinaia di pesanti pagine.
Cuconato entrò lentamente nell’appartamento, in cui, a causa della corrente creata dalle numerose aperture, tirava una brezza non indifferente. Eppure non faceva freddo, era un’aria fresca, pulita, scivolava addosso come una carezza.
Elena si trovava fuori al balcone, seduta su una sedia, con i capelli grigi svolazzanti, un sorriso negli occhi e, finalmente, con le spalle al caro e sicuro appartamento.
“Buongiorno, signora”, fece il poliziotto a pochi metri da lei, “mi scusi se sono entrato ma la porta era aperta. E non solo quella, ho visto…”
Elena, novant’anni tra una settimana, rispose senza voltarsi.
“Vieni qua fuori. Cosa fa lì? Prenditi una sedia e accomodati vicino a me.”
Il commissario si guardò in giro e scelse un piccolo sgabello di legno. Quindi uscì e si sedette ai piedi dell’anziana signora. Lei lo guardò con tenerezza e gli strinse la mano con forza.
“Come ti chiami? Dove abiti? Cosa fai nella vita? Che ti piace fare?”
La donna avrebbe continuato ma Cuconato la interruppe.
“Sono un commissario di polizia. Sto indagando sul furto da lei denunciato. Robin Dream, ricorda?”
Elena non appena sentì quel nome rimase per un attimo immobile, come quando si ritrova in un vecchio cassetto un qualcosa che ci ricorda quanta vita abbiamo fatto, tra quell’oggetto e noi. Ma poi riprese la giusta velocità.
“Lo sa da quanto tempo non metto piede su questo balcone? Saranno anni. Mi sembra di aver cambiato casa, non la riconosco più, o forse è il contrario. Ho sempre abitato qui, ho sempre voluto vivere qui.
“Ho sempre desiderato che la vita fosse qui, che fosse di casa, che non avesse avuto il bisogno di telefonare per venirmi a trovare. Ricordo solo adesso quante parole impiegò mio marito per darmi il primo bacio. E quanti passi dovevo fare io stessa per raggiungere la guancia di mio padre e fare altrettanto. Quanti chilometri pensavo fosse lunga la serranda di questa finestra, quanta luce e aria sarebbero potute entrare in casa mia senza aver bisogno di rubare nulla. Se non fosse stato per Robin quale altra possibilità avrei avuto per averti qui, vicino a me, ora?”
La donna sorrise con dolcezza e poggiò la mano rugosa ma morbida sulla guancia del commissario. Quest’ultimo era in palese imbarazzo e con tempismo da vero timido professionista ruppe immediatamente il silenzio.
“Le andrebbe di raccontarmi del suo incontro con il ladro?”
“Certamente. Tu devi assolutamente aiutarmi a ritrovarlo. Lui ha aperto la porta.
Se non lo avesse fatto non avrei nemmeno scoperto di averne una.”
Stavolta fu una porta aperta quella che Cuconato lasciò alle spalle. E quando è una storia ad uscire da essa centinaia di altre se ne aprono dentro di noi, come se all’improvviso scattassero delle serrature invisibili e permettessero ai pensieri di circolare finalmente liberi, senza ordini e ordine, senza dover aspettare la benedetta ora d’aria.
Si può vivere anche solo per un’ora?
Una vita non lo so, non saprei dirlo ma sicuramente un pensiero si era liberato definitivamente nel cervello del Cuconato: l’ora appena passata, quella mattina, valeva già l’intero giorno che l’avvolgeva.
Testimone numero quattro, cinque, sei fino al…primo, Mirko Parisi, ex maestro elementare, colui che fu rapito da un albero, classe 1927:
Era ormai sera, poco dopo le diciannove, in quel momento della giornata che preferisco. Quando il cielo si colora di quella luce azzurro opaco, con venature di un blu gentile, non invadente, con il silenzio che si crea in strada perché ormai sono quasi tutti rientrati in casa. Le famiglie si ritrovano o si ignorano e tutto rallenta, non si ferma perché sarebbe chiedere troppo, tale privilegio è concesso solo alla notte. No, in quell’istante, seppure così breve, è ancora giorno eppure la corsa prende fiato, si può finalmente parlare con calma, guardarsi con calma.
Fino a quell’ora Cuconato aveva ascoltato una storia con centinaia di voci diverse, condita con ogni tipo di memoria, intrisa di vita vissuta e di voglia di viverne ancora, con una miscela di euforie scatenate da un inarrestabile desiderio di ringraziare sempre la stessa persona: Robin Dream, di professione ladro.
Il commissario non sapeva più cosa pensare, con quale nome incasellare nella propria memoria le informazioni. Ogni tanto la sua mente si soffermava sul rapporto che avrebbe dovuto redigere il mattino seguente e, puntualmente, fuggiva via, terrorizzata. La cosa che lo impressionava di più era la più temibile. Dopo una giornata come quella, cominciava a credere che Robin Dream esistesse realmente. Fu con questo stato d’animo che arrivò a casa di Mirko Parisi.
“Signore, è inutile che suoni”, disse un bimbetto alle sue spalle mentre lo tirava per la giacca, “il signor Mirko non c’è.”
Cuconato si voltò e, senza parlare, accarezzò i capelli del ragazzino e si allontanò dal portone, indietreggiando. Dov’era andato Mirko Parisi? Dove poteva essere finito un vecchietto di ottantasette anni dopo aver vissuto una notte simile?
Pensandoci bene il commissario sapeva dove fosse Mirko. Fu così che in pochi minuti raggiunse un orribile mostro di metallo che un tempo era stato uno splendido albero.
Mirko si era arrampicato su di esso e da lassù osservava le auto correre.
“Buonasera”, fece il commissario. Parisi non rispose. Cuconato salutò di nuovo e idem come sopra.
Il poliziotto era ormai spacciato. Quindi, senza pensarci ulteriormente, sebbene con estrema goffaggine, salì anch’egli sulla cosa che avrebbe dovuto ricordare un albero.
Pochi secondi dopo e con una voce completamente diversa disse al compagno di postazione: “Come è bello il quartiere visto da qui. Mi sembra di guardarlo per la prima volta.”
Fu così che il vecchietto si voltò per un attimo e poi mormorò: “L’avevo dimenticato. Avevo dimenticato che per ben tre giorni ho avuto questa possibilità. E non solo quella di salire su un albero. Davide e Mauro, i miei fratelli, ora non ci sono più e da allora non abbiamo più parlato di quello che ci siamo detti in quei giorni.
“Sai? Davide voleva essere come Mauro. Il primo era timido e piuttosto pauroso mentre l’altro era veramente quello che ti aspetti da un fratello maggiore: sicuro di sé, forte, anche fisicamente parlando, il che non guastava mai se qualche ragazzetto più grande voleva farci dei dispetti.
“Quando Mauro parlava, Davide rimaneva fermo in ascolto, registrando tutto. Anche io ero piuttosto silenzioso, ma non per timidezza. Semplicemente avevo tanto da pensare e ogni volta che mi si chiedesse qualcosa avevo il timore di non trovare le parole giuste per rendere quello che passava per la mia testa.
“Ma in quei giorni, tutti e tre abbiamo avuto un’occasione irripetibile. Sopra un albero, con il temporale urlante intorno a noi, non c’erano differenze d’età, di ruolo sociale o familiare, di semplice grandezza muscolare. Proprio Davide, l’introverso Davide, diede il via alle danze.
Su un albero, 1933:
Davide: “Cosa facciamo, Mauro?”
Mauro: “Aspettiamo che smette di piovere.”
Davide: “E se non smette?”
Silenzio.
Mauro: “Ma sì che smette, non aver paura.”
Davide: “Se non smette lo so io che facciamo.”
Mauro: “ Ah sì? E cosa facciamo?”
Davide: “Diventiamo dei pesci e nuotiamo fino a casa.”
Il bambino disse ciò con una tale serietà che tutti e tre scoppiarono a ridere.
Mirko: “Non è meglio se diventiamo uccelli e voliamo via? Non facciamo prima?”
Mauro: “E’ vero!”
Davide: “Ma siamo già bagnati! E se non c’era l’ombrello mio…”
Mauro: “Se diventiamo uccelli o pesci che te ne fai dell’ombrello?”
Davide: “Già, lo lasciamo qua.”
Mirko: “Sicuro. Sarà la nostra prova.”
Mauro: “La prova di che?”
Mirko: “La prova che tre bambini, nel 1933, sono diventati degli uccelli.”
Davide: “O dei pesci.”
“Vedi, la cosa che più mi addolorò, quando seppi che l’albero non c’era più, non era per la pianta in sé ma per l’ombrello, il nostro ombrello. Il giorno dopo venni qui e trovai il manico, con l’intelaiatura tutta sbrindellata. Eccolo – porgendolo al commissario – lo avevo messo sopra un armadio, dentro una vecchia scatola piena di cianfrusaglie.”
Cuconato, con la prova in mano, rifece la domanda che oramai sapeva alla perfezione: “Le andrebbe di parlarmi del furto di stanotte?”
“Anche tu vuoi trovare Robin Dream, vero? E’ un fatto personale, ora, dico bene?”
“Sì…” ammise quest’ultimo, inevitabilmente.
“Allora, ascoltami bene. Perché ti racconterò qualcosa che tutti gli altri sicuramente non ti hanno ancora detto.”
Un testimone in più, Pierpaolo, figlio di un normale commissario, classe 2004:
Cuconato rientrò in casa per le venti, bagnato fradicio, sorpreso da una pioggia improvvisa, ma sorridente e con un prezioso manico d’ombrello in mano.
La moglie gli venne incontro, palesemente preoccupata e lo aiutò in silenzio a levarsi di dosso gli abiti zuppi. Nulla però le permise di fargli posare quel pezzo di metallo e plastica che un tempo era stato una prova. Suo figlio, Pierpaolo, era seduto per terra davanti alla televisione e rispose al suo saluto senza smettere di guardare lo schermo. Proprio in quell’istante il temporale decise di colpire ancora.
Sì, qualcuno non ci crederà, ma a volte ritornano.
I fulmini, intendo. E un intero quartiere a cui fu rubato il nome rimase al buio. La signora Cuconato si impegnò ad accendere e sistemare candele in tutte le stanze, partendo proprio dal soggiorno, dove Pierpaolo era rimasto immobile e seduto per terra. Mentre la donna era in giro per la casa, in quella luce soffusa, Francesco si avvicinò al figlio, si sedette di fronte a lui e, con la prova in grembo, disse lentamente: “Ti va di ascoltare una storia?”
Chissà, forse con la tv accesa sarebbe stata un’impresa ardua, forse col favore della luce elettrica, la tv, il nulla che uccide i preziosi silenzi avrebbe impedito ad un bambino di dieci anni di fidarsi del proprio padre. Ma, in quel momento, la situazione era quanto mai propizia.
“Sì, papà”, si limitò a rispondere Pierpaolo. E Francesco, con la gioia nel cuore e i resti di un ombrello stretti fra le mani, cominciò così.
“Ti racconterò la storia di Robin Dream. Che rubò i sogni ai vecchi per donarli ai bambini.”
La notte che seguì, la corrente non tornò. Si fece viva quando era ormai mattina.
Almeno per una notte, tutto un quartiere di Roma fece lo stesso sogno: di essere di nuovo Sant’Alberone.
Tutti tranne uno. Un commissario di polizia di nome Francesco Cuconato.
E fu la prima volta che un poliziotto sognò di ringraziare un ladro.
Nota: Il racconto è stato pubblicato sulla rivista El-Ghibli (Anno 0, Numero 1, settembre 2003) e narrato dal sottoscritto in occasione del Quarto Convegno Nazionale Culture e letteratura della migrazione "Città identità culture" (Ferrara 15 - 16 aprile 2005).
addietro è caduto l'albero che ne è (era?) simbolo.
Era il 2003, se non erro, quando scrissi un racconto ispirato da quella pianta così importante per la storia di quel frammento di città, immaginando proprio la scomparsa dell'albero a causa del maltempo.
Nuovo albero, nuovo nome per il quartiere.
Nella versione originale la colpa era di un fulmine, quindi l'ho leggermente adattato, ma la storia è rimasta la stessa.
Ecco a voi...
Robin Dream
Che rubò i sogni ai vecchi per donarli ai bambini
di
Alessandro Ghebreigziabiher
1
“Commissario, posso disturbarla?” chiese l’agente Gennaro Donato, quel mattino di novembre del 2019.
“Dimmi pure”, rispose Francesco Cuconato, commissario capo della stazione di polizia di Alberoide, noto quartiere di Roma.
In realtà avrei dovuto dire Alberoide ex-Alberone.
Quindi, se permettete, vorrei rendere omaggio a quell’ex.
Sull’Alberone:
L’aneddoto non è poi così complicato, anzi è molto semplice, sebbene estremamente significativo.
Più di ottant’anni addietro, sempre a novembre, una pioggia torrenziale che durò quasi una settimana aggredì la capitale.
Tre fratelli, Mirko, Davide e Mauro, rispettivamente di sei, otto e nove anni, tornando da scuola si trovavano in quei giorni proprio nei pressi dell’albero che dava il nome al suddetto quartiere.
La madre non era potuta venire a prenderli all’uscita poiché la quarta figlia, la più piccola, aveva la febbre alta a causa della rosolia.
Ebbene, i tre ragazzini, stretti e ben imbacuccati sotto uno striminzito ombrello, furono sorpresi da un violento temporale misto a grandine, peraltro armata di chicchi da distruzione di massa.
Fu Mauro a suggerire la presunta via di fuga.
“Saliamo sull’albero, svelti.”
Nell’istante stesso in cui la pioggia si fece a dir poco brutale, il piedino del fratello più piccolo, Mirko, era stato tirato a bordo.
Ai tre piacque così tanto quella nuova sistemazione che vi rimasero per ben tre giorni, mentre i temporali proseguirono nella loro pratica flagellatrice.
La madre passò quelle ore senza dormire e senza mangiare mentre le ricerche dei tre bambini scomparsi continuarono senza sosta.
Il quarto giorno smise di piovere e i tre, col favore del sole, scesero dall’albero e tornarono a casa, allegri e spensierati, come di ritorno da una piacevole gita scolastica.
La mamma li abbracciò per un giorno intero, ogni volta che se li vedeva passare davanti. La loro storia fece subito il giro della città, con quel potente mezzo di comunicazione che è il passaparola, altro che Facebook, e da quei giorni, in ricordo del fortunato episodio, la donna ribattezzò il quartiere Sant’Alberone.
Ho fatto presto, visto? Ancora più facile sarà per me spiegare l’origine di Alberoide, definizione tuttavia non molto gradita alla giunta comunale, la quale preferisce New Alberone.
Su Alberoide:
Cinque anni fa, ancora una volta la pioggia decise di giocare al Deus ex machina con una comunità, e un albero che un tempo rallegrò la vita di tre bambini si dissolse.
Il fatto colpì tutti, indistintamente, e gli assessori si riunirono per rimediare al grave lutto.
In verità, ci fu qualcuno che propose la soluzione più naturale, e cioè piantare un altro albero, nondimeno, l’atteggiamento più in voga e per questo vincente del momento si fece sentire: lungimiranza.
Fu quindi l’assessore Gremese che propose l’idea vincente: “Facciamo costruire sulle ceneri della defunta pianta un albero artificiale con una lega di acciaio e carbonio, utilizzata per i sommergibili giapponesi. Il progetto sarà costoso ma il nuovo albero risulterà indistruttibile e resisterà ad ogni cataclisma.”
Gremese, ovviamente, non omise che suo fratello dirigeva una fabbrica che stringeva importanti affari con una nota industria di sottomarini del sol levante.
Tuttavia, la lungimiranza è un dono e chi lo possiede, e che soprattutto grazie ad essa aiuta molti di noi con estrema generosità e senso civico, è giusto che ne goda in prima persona i benefici.
Di conseguenza l’albero meccanico fu costruito in due giorni e il quartiere divenne Alberoide.
2
“Commissario, la situazione è ingestibile. Qui fuori ci sono centinaia di persone anziane. Vecchi, insomma. E ne continuano ad arrivare.”
“Calma, Donato, calma. Vi siete fatti spiegare che è successo?”
Cuconato, nel frattempo, non si era neanche mosso dalla scrivania.
“Commissario, è questa la cosa strana. Sembrano tutti impazziti.”
“Si spieghi meglio”
“Ecco, il primo è arrivato poco dopo l’alba. Si chiama Parisi Mirko, circa ottant’anni, e si è presentato chiedendo di sporgere denuncia, denuncia di un furto.
“Fin qui tutto a posto anche se il collega Agresti ed io notammo subito il sorriso e l’allegria con i quali l’anziano signore ci informava del motivo della sua venuta.
“In ogni caso, lo abbiamo fatto accomodare e ci ha raccontato il fatto.”
Il fatto, qualche ora prima:
Mirko: “Stanotte sono stato derubato.”
Donato: “Cosa le hanno rubato?”
Mirko: “I sogni. Tutti i sogni che mi erano rimasti.”
Agresti: “C-Cosa ha detto?”
Mirko: “Cos’è, sordo? I sogni, mi ha rubato tutti i sogni.”
Donato: “Certo, i sogni! Agente Agresti, ma non ha capito? Qualcuno ha rubato i sogni al signore…”
Agresti: “Ah, i sogni! E chi è stato, eh? Chi si è permesso?”
Mirko: “Non fate i sarcastici, non potrò mai smettere di ringraziarlo. E’ stato Robin Dream.”
Donato: ”Robin che?”
Mirko: “ Ma che è sordo anche lei? Robin Dream: ruba i sogni ai vecchi per donarli ai bambini.”
Agresti: “Ma tu guarda questo Robin Dream. Se lo acciuffiamo…”
Mirko: “No! Voi non dovete fargli del male. Lui è stato così buono.”
Donato: “Come buono? Ma l’ha derubata, no?”
Mirko: “Sì, finalmente. Finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di prendermi i sogni che nascondevo. Io non c’ero mai riuscito da solo. Troppa paura. Che idea, poi, donarli ai bambini: gli unici in grado di liberarli, di dar loro un’altra possibilità.”
Agresti: “Mi scusi. Ma lei, questo Robin, vuole denunciarlo o no?”
Mirko: “Sì, ma non per farlo arrestare. Perché voglio incontrarlo, abbracciarlo e dirgli grazie. Lo devo a lui se ora non ho più paura.”
“Mirko…” fece Cuconato. “Mirko Parisi… ma certo! Mirko, il più piccolo dei tre ragazzini saliti sull’albero. Lei non se lo ricorda Donato, è troppo giovane. Quante volte mio padre mi ha raccontato la storia. Dev’essere uscito fuori di testa, poverino.”
“Commissario… il problema è che forse sono usciti fuori di testa tutti i vecchi del quartiere. Sì, perchè ognuno di loro ha sporto la medesima denuncia: il furto dei sogni, Robin Dream, ecc. Il tutto con gioia sul viso.”
“Ma non è tutto – riprese - gli anziani sono ancora a centinaia qui fuori e dicono che non se ne andranno finchè non troveremo il ladro, Robin, insomma.”
Il commissario rimase incollato alla poltrona, senza saper cosa pensare e dopo pochi istanti si alzò e si affacciò alla finestra dell’ufficio, che dava proprio sullo spiazzo antistante la centrale. Quello che vide confermava ampiamente la descrizione dell’agente. Un mare, un vero mare di anziani ricopriva strada e marciapiede. C’era chi giocava a morra, chi a carte, chi addirittura allo schiaffo del soldato. Sembrava una sorta di sagra di paese. Solo molto più allegra, molto di più. Quindi prese un megafono e si affacciò. Poi, dopo aver preso fiato, disse alla folla: “Signore e signori. Vi prego, un attimo di attenzione. Sono il commissario Cuconato – e lì partì un applauso inaspettato – ehm…volevo darvi la mia garanzia personale che faremo il possibile per trovare questo Robin Dream. Appena sapremo qualcosa sarete tutti avvertiti, abbiamo i vostri dati – altro scrosciare di mani – perciò vi chiederei gentilmente di tornare alle vostre abitazioni, in modo da lasciar libera la circolazione sulla strada.”
Pochi secondi e tutta la canuta folla, dopo aver salutato educatamente il commissario, si allontanò in buon ordine, come un’enorme scolaresca dietro alla propria amata o temuta maestra.
Cuconato rimase sorpreso dalla facilità con cui aveva ottenuto il primo risultato e richiuse la finestra. In quel momento cominciò davvero quella particolare giornata. Essa nasceva con una promessa e quando la si fa ad un vasto numero di persone, che ripone in noi altrettanta fiducia, per quanto cerone si possa mettere sul proprio viso è difficile stare tranquilli.
Cuconato, il cerone, neanche lo usava. Non aveva altra scelta: doveva trovare Robin Dream.
3
Dalla mente di un solerte poliziotto:
Prima domanda: come si fa ad arrestare un ladro che non si crede reale?
Questa è la questione più difficile da affrontare. Sì, perché stiamo parlando di un solerte poliziotto. Non ho mica detto poliziotto e basta. Fino a prova contraria, solerte ha come sinonimi, tra gli altri: zelante, premuroso, indefesso, tutta roba tosta.
Il manuale e l’esperienza decennale non suggerivano alcun precedente ed insegnamento di sorta. Occorreva improvvisare, dare vita a nuove strategie. In fondo, questo affascinava e stimolava immensamente il Cuconato. Ma voi ci pensate a cosa provasse un commissario di un quartiere tranquillo come Alberoide ogni volta che accendeva la televisione e assisteva alle coraggiose gesta di ispettori ed investigatori di ogni arma possibile mentre sventavano pericolose rapine e svelavano intricatissimi misteri con acume straordinario? Perfino un cane pastore tedesco ci si era messo a fare il commissario e era ormai un eroe, soprattutto per Pierpaolo, suo figlio di nove anni.
Cosa provava? Rosicava.
Sì, avete capito benissimo. Rosicava alla grande ed era anche un po’ arrabbiato con la tv.
Perché non raccontavano mai la vera realtà di una stazione di polizia?
Da loro non c’erano di certo eroismi tutti i giorni, ma non per questo la sua squadra era meno degna di attenzione e rispetto. Tuttavia, stavolta l’occasione era allettante, eccitante e splendidamente fuori dall’ordinario.
Fu per questo che la mente di Cuconato scelse proprio l’alternativa meno logica ma esattamente secondo la procedura: Robin Dream esisteva perché qualcuno, anzi molti, l’avevano denunciato.
Seconda domanda: Come inizia un’indagine su un ladro che non esiste ma a cui si vuole teneramente credere?
A questo punto la strada si fa più semplice. Già, perché nonostante qualche brandello della sua ragione cercasse di dissuaderlo, in un certo qual modo la sua scelta l’aveva già fatta.
Come si comincia quest’indagine, allora? E’ banale: si va ad interrogare i testimoni del fatto criminoso. Incredibile, o reale che fosse, essi erano sempre dei testimoni e questi sono sempre i compagni di viaggio migliori per arrivare alla verità.
“Donato. Mi dia l’elenco dei derubati”, disse con palese fretta.
“Subito” rispose l’agente porgendoglielo.
“Io esco” aggiunse il commissario leggendo il foglio che aveva in mano.
“Vuole che l’accompagno?”
“No, grazie. Ne avrò per molto, credo…”
Cuconato prese la macchina e iniziò la caccia al ladro più strana della sua carriera.
4
Testimone numero due: Andrea Ghebellini, commercialista, classe 1926:
“Signor Ghebellini, è la polizia. Sono il commissario Cuconato”, disse alla porta del secondo testimone. Il primo della lunga lista, Mirko Parisi, se l’era lasciato per ultimo. Così, senza un motivo preciso. Lo aveva fatto e basta.
“Un attimo…” rispose dopo un paio di minuti l’anziano inquilino dell’appartamento di vastissimi sessanta metri quadrati nel cuore di Alberoide.
La casa era a disposizione di tutto e solo il tempo di Andrea, la cui moglie aveva accelerato improvvisamente dieci anni prima, durante la loro armonica corsa, a causa di un dannato tumore al seno.
“Buongiorno”, fece il commissario vedendo aprire la porta, “sono Cuconato, le volevo fare qualche domanda sul furto da lei denunciato questa mattina.”
Il viso dell’uomo si illuminò, per quanto potesse farlo ulteriormente. Sì, perché Ghebellini aveva aperto la porta con un viso già di suo acceso ed emozionato.
“Prego, Cuconato, si accomodi, le faccio strada in salotto.”
“Ma lei stava stirando”, osservò il poliziotto notando la tavola con il ferro ancora caldo. “L’ho disturbata, mi scusi.”
“Ma no, non si preoccupi. E poi ho già finito. Guardi, è ancora come nuova.”
Andrea mostrò al nuovo arrivato la sua maglietta. La mitica numero quattro.
Sul numero quattro:
Ci sono tanti modi per vivere da numero quattro. C’è il centrale davanti alla difesa, un vero responsabile del centrocampo, un uomo di frontiera, che raccoglie direttamente la sfera dal libero, il capo dei difensori, per offrirla ai registi, coloro che creano il gioco, che danno la giusta forma alla palla, affinchè rotoli il più lontano possibile dalla propria porta.
Poi c’è il mediano di spinta. Lo stantuffo, il pistone, il portatore d’acqua, l’uomo di trincea dimenticato dai riflettori che strenuamente e stoicamente sacrifica ogni centimetro delle sue robuste gambe per la causa, la vittoria, unicamente essa, altro che sportiva partecipazione.
Infine c’era Ghebellini: il trattore, il frangiflutti, il frullatore di ossa fragiline, la valanga di fango e scarpini, l’amante della scivolata maligna, quella senza toccare terra, per intenderci. Poteva riempire un’intera collezione di francobolli ma con al posto di essi cartellini gialli e rossi, raccolti su tutti i campi della città.
“Ma non se la ricorda? La S.C.S., Scuola Calcio Sant’Alberone! Sono passati più di sessant’anni. E sa la novità? Questa mattina ci siamo ritrovati tutti e alle due di questo pomeriggio sfideremo i nostri eterni rivali. Ci hanno sempre battuti.”
Cuconato avvertiva un impulso irresistibile a lasciar andare una risata di fronte a quel vecchietto che sfidava le leggi di gravità per quanto tremasse, mentre, con la maglietta che danzava tra le sue mani malferme, come una bandiera rossa che segnala mare agitato, annunciava il proprio imminente ritorno al calcio giocato.
Eppure, qualcosa lo aiutò a rimanere serio.
La stessa, probabilmente, gli fece trovare la giusta e sincera attenzione per chiedere all’uomo: “Senta, mi racconta quello che è successo stanotte?”
Ghebellini sorrise, si mise sulle spalle la gloriosa maglia e invitò il poliziotto a sedersi sul divano. “Prego, commissario. Io ho tutto il tempo che vuole per ricordare stanotte.
“Tutto il tempo per ripensare a ciò che potrà farmi stare meglio ora e più che mai domani.”
5
Un quarto d’ora più tardi Cuconato era all’esterno del palazzo. Si era fermato lì, con la porta, una storia e una vita alle spalle.
Quel giorno, in quell’attimo, quei tre doni erano pronti per essere scartati nel cuore del commissario. Una vita, una storia e una porta, dietro alla quale egli aveva trovato il primo indizio su uno strano ladro chiamato Robin Dream.
Testimone numero tre: Elena Palmiri, commerciante in pensione, classe 1924:
La porta di casa della signora Elena era aperta.
Erano aperte anche tutte le finestre e perfino il vecchio lucernario era dischiuso.
Ma non solo. Erano spalancate le ante degli armadi, i cassetti del fascinoso comò marrone erano tutti in bella esposizione, svelando ogni segreto dimenticato.
Il frigorifero stesso illuminava la cucina, con le fauci affamate che sbavavano su un misero yogurt magro mentre il forno si apriva al mondo senza necessariamente doversi esibire nella sua arte cuocitoria. E così via, ritrovavano la luce scatole di scarpe rubate al loro scopo d’origine, lettere imprigionate da buste ormai in pensione, segnalibri finalmente risparmiati da centinaia di pesanti pagine.
Cuconato entrò lentamente nell’appartamento, in cui, a causa della corrente creata dalle numerose aperture, tirava una brezza non indifferente. Eppure non faceva freddo, era un’aria fresca, pulita, scivolava addosso come una carezza.
Elena si trovava fuori al balcone, seduta su una sedia, con i capelli grigi svolazzanti, un sorriso negli occhi e, finalmente, con le spalle al caro e sicuro appartamento.
“Buongiorno, signora”, fece il poliziotto a pochi metri da lei, “mi scusi se sono entrato ma la porta era aperta. E non solo quella, ho visto…”
Elena, novant’anni tra una settimana, rispose senza voltarsi.
“Vieni qua fuori. Cosa fa lì? Prenditi una sedia e accomodati vicino a me.”
Il commissario si guardò in giro e scelse un piccolo sgabello di legno. Quindi uscì e si sedette ai piedi dell’anziana signora. Lei lo guardò con tenerezza e gli strinse la mano con forza.
“Come ti chiami? Dove abiti? Cosa fai nella vita? Che ti piace fare?”
La donna avrebbe continuato ma Cuconato la interruppe.
“Sono un commissario di polizia. Sto indagando sul furto da lei denunciato. Robin Dream, ricorda?”
Elena non appena sentì quel nome rimase per un attimo immobile, come quando si ritrova in un vecchio cassetto un qualcosa che ci ricorda quanta vita abbiamo fatto, tra quell’oggetto e noi. Ma poi riprese la giusta velocità.
“Lo sa da quanto tempo non metto piede su questo balcone? Saranno anni. Mi sembra di aver cambiato casa, non la riconosco più, o forse è il contrario. Ho sempre abitato qui, ho sempre voluto vivere qui.
“Ho sempre desiderato che la vita fosse qui, che fosse di casa, che non avesse avuto il bisogno di telefonare per venirmi a trovare. Ricordo solo adesso quante parole impiegò mio marito per darmi il primo bacio. E quanti passi dovevo fare io stessa per raggiungere la guancia di mio padre e fare altrettanto. Quanti chilometri pensavo fosse lunga la serranda di questa finestra, quanta luce e aria sarebbero potute entrare in casa mia senza aver bisogno di rubare nulla. Se non fosse stato per Robin quale altra possibilità avrei avuto per averti qui, vicino a me, ora?”
La donna sorrise con dolcezza e poggiò la mano rugosa ma morbida sulla guancia del commissario. Quest’ultimo era in palese imbarazzo e con tempismo da vero timido professionista ruppe immediatamente il silenzio.
“Le andrebbe di raccontarmi del suo incontro con il ladro?”
“Certamente. Tu devi assolutamente aiutarmi a ritrovarlo. Lui ha aperto la porta.
Se non lo avesse fatto non avrei nemmeno scoperto di averne una.”
6
Stavolta fu una porta aperta quella che Cuconato lasciò alle spalle. E quando è una storia ad uscire da essa centinaia di altre se ne aprono dentro di noi, come se all’improvviso scattassero delle serrature invisibili e permettessero ai pensieri di circolare finalmente liberi, senza ordini e ordine, senza dover aspettare la benedetta ora d’aria.
Si può vivere anche solo per un’ora?
Una vita non lo so, non saprei dirlo ma sicuramente un pensiero si era liberato definitivamente nel cervello del Cuconato: l’ora appena passata, quella mattina, valeva già l’intero giorno che l’avvolgeva.
Testimone numero quattro, cinque, sei fino al…primo, Mirko Parisi, ex maestro elementare, colui che fu rapito da un albero, classe 1927:
Era ormai sera, poco dopo le diciannove, in quel momento della giornata che preferisco. Quando il cielo si colora di quella luce azzurro opaco, con venature di un blu gentile, non invadente, con il silenzio che si crea in strada perché ormai sono quasi tutti rientrati in casa. Le famiglie si ritrovano o si ignorano e tutto rallenta, non si ferma perché sarebbe chiedere troppo, tale privilegio è concesso solo alla notte. No, in quell’istante, seppure così breve, è ancora giorno eppure la corsa prende fiato, si può finalmente parlare con calma, guardarsi con calma.
Fino a quell’ora Cuconato aveva ascoltato una storia con centinaia di voci diverse, condita con ogni tipo di memoria, intrisa di vita vissuta e di voglia di viverne ancora, con una miscela di euforie scatenate da un inarrestabile desiderio di ringraziare sempre la stessa persona: Robin Dream, di professione ladro.
Il commissario non sapeva più cosa pensare, con quale nome incasellare nella propria memoria le informazioni. Ogni tanto la sua mente si soffermava sul rapporto che avrebbe dovuto redigere il mattino seguente e, puntualmente, fuggiva via, terrorizzata. La cosa che lo impressionava di più era la più temibile. Dopo una giornata come quella, cominciava a credere che Robin Dream esistesse realmente. Fu con questo stato d’animo che arrivò a casa di Mirko Parisi.
“Signore, è inutile che suoni”, disse un bimbetto alle sue spalle mentre lo tirava per la giacca, “il signor Mirko non c’è.”
Cuconato si voltò e, senza parlare, accarezzò i capelli del ragazzino e si allontanò dal portone, indietreggiando. Dov’era andato Mirko Parisi? Dove poteva essere finito un vecchietto di ottantasette anni dopo aver vissuto una notte simile?
Pensandoci bene il commissario sapeva dove fosse Mirko. Fu così che in pochi minuti raggiunse un orribile mostro di metallo che un tempo era stato uno splendido albero.
Mirko si era arrampicato su di esso e da lassù osservava le auto correre.
“Buonasera”, fece il commissario. Parisi non rispose. Cuconato salutò di nuovo e idem come sopra.
Il poliziotto era ormai spacciato. Quindi, senza pensarci ulteriormente, sebbene con estrema goffaggine, salì anch’egli sulla cosa che avrebbe dovuto ricordare un albero.
Pochi secondi dopo e con una voce completamente diversa disse al compagno di postazione: “Come è bello il quartiere visto da qui. Mi sembra di guardarlo per la prima volta.”
Fu così che il vecchietto si voltò per un attimo e poi mormorò: “L’avevo dimenticato. Avevo dimenticato che per ben tre giorni ho avuto questa possibilità. E non solo quella di salire su un albero. Davide e Mauro, i miei fratelli, ora non ci sono più e da allora non abbiamo più parlato di quello che ci siamo detti in quei giorni.
“Sai? Davide voleva essere come Mauro. Il primo era timido e piuttosto pauroso mentre l’altro era veramente quello che ti aspetti da un fratello maggiore: sicuro di sé, forte, anche fisicamente parlando, il che non guastava mai se qualche ragazzetto più grande voleva farci dei dispetti.
“Quando Mauro parlava, Davide rimaneva fermo in ascolto, registrando tutto. Anche io ero piuttosto silenzioso, ma non per timidezza. Semplicemente avevo tanto da pensare e ogni volta che mi si chiedesse qualcosa avevo il timore di non trovare le parole giuste per rendere quello che passava per la mia testa.
“Ma in quei giorni, tutti e tre abbiamo avuto un’occasione irripetibile. Sopra un albero, con il temporale urlante intorno a noi, non c’erano differenze d’età, di ruolo sociale o familiare, di semplice grandezza muscolare. Proprio Davide, l’introverso Davide, diede il via alle danze.
7
Su un albero, 1933:
Davide: “Cosa facciamo, Mauro?”
Mauro: “Aspettiamo che smette di piovere.”
Davide: “E se non smette?”
Silenzio.
Mauro: “Ma sì che smette, non aver paura.”
Davide: “Se non smette lo so io che facciamo.”
Mauro: “ Ah sì? E cosa facciamo?”
Davide: “Diventiamo dei pesci e nuotiamo fino a casa.”
Il bambino disse ciò con una tale serietà che tutti e tre scoppiarono a ridere.
Mirko: “Non è meglio se diventiamo uccelli e voliamo via? Non facciamo prima?”
Mauro: “E’ vero!”
Davide: “Ma siamo già bagnati! E se non c’era l’ombrello mio…”
Mauro: “Se diventiamo uccelli o pesci che te ne fai dell’ombrello?”
Davide: “Già, lo lasciamo qua.”
Mirko: “Sicuro. Sarà la nostra prova.”
Mauro: “La prova di che?”
Mirko: “La prova che tre bambini, nel 1933, sono diventati degli uccelli.”
Davide: “O dei pesci.”
“Vedi, la cosa che più mi addolorò, quando seppi che l’albero non c’era più, non era per la pianta in sé ma per l’ombrello, il nostro ombrello. Il giorno dopo venni qui e trovai il manico, con l’intelaiatura tutta sbrindellata. Eccolo – porgendolo al commissario – lo avevo messo sopra un armadio, dentro una vecchia scatola piena di cianfrusaglie.”
Cuconato, con la prova in mano, rifece la domanda che oramai sapeva alla perfezione: “Le andrebbe di parlarmi del furto di stanotte?”
“Anche tu vuoi trovare Robin Dream, vero? E’ un fatto personale, ora, dico bene?”
“Sì…” ammise quest’ultimo, inevitabilmente.
“Allora, ascoltami bene. Perché ti racconterò qualcosa che tutti gli altri sicuramente non ti hanno ancora detto.”
8
Un testimone in più, Pierpaolo, figlio di un normale commissario, classe 2004:
Cuconato rientrò in casa per le venti, bagnato fradicio, sorpreso da una pioggia improvvisa, ma sorridente e con un prezioso manico d’ombrello in mano.
La moglie gli venne incontro, palesemente preoccupata e lo aiutò in silenzio a levarsi di dosso gli abiti zuppi. Nulla però le permise di fargli posare quel pezzo di metallo e plastica che un tempo era stato una prova. Suo figlio, Pierpaolo, era seduto per terra davanti alla televisione e rispose al suo saluto senza smettere di guardare lo schermo. Proprio in quell’istante il temporale decise di colpire ancora.
Sì, qualcuno non ci crederà, ma a volte ritornano.
I fulmini, intendo. E un intero quartiere a cui fu rubato il nome rimase al buio. La signora Cuconato si impegnò ad accendere e sistemare candele in tutte le stanze, partendo proprio dal soggiorno, dove Pierpaolo era rimasto immobile e seduto per terra. Mentre la donna era in giro per la casa, in quella luce soffusa, Francesco si avvicinò al figlio, si sedette di fronte a lui e, con la prova in grembo, disse lentamente: “Ti va di ascoltare una storia?”
Chissà, forse con la tv accesa sarebbe stata un’impresa ardua, forse col favore della luce elettrica, la tv, il nulla che uccide i preziosi silenzi avrebbe impedito ad un bambino di dieci anni di fidarsi del proprio padre. Ma, in quel momento, la situazione era quanto mai propizia.
“Sì, papà”, si limitò a rispondere Pierpaolo. E Francesco, con la gioia nel cuore e i resti di un ombrello stretti fra le mani, cominciò così.
“Ti racconterò la storia di Robin Dream. Che rubò i sogni ai vecchi per donarli ai bambini.”
La notte che seguì, la corrente non tornò. Si fece viva quando era ormai mattina.
Almeno per una notte, tutto un quartiere di Roma fece lo stesso sogno: di essere di nuovo Sant’Alberone.
Tutti tranne uno. Un commissario di polizia di nome Francesco Cuconato.
E fu la prima volta che un poliziotto sognò di ringraziare un ladro.
Nota: Il racconto è stato pubblicato sulla rivista El-Ghibli (Anno 0, Numero 1, settembre 2003) e narrato dal sottoscritto in occasione del Quarto Convegno Nazionale Culture e letteratura della migrazione "Città identità culture" (Ferrara 15 - 16 aprile 2005).
Commenti
Posta un commento