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Storie di sport per bambini: il mio ginocchio sinistro

Il mio ginocchio sinistro

di
Alessandro Ghebreigziabiher


Un neonato in una culla.
A pochi centimetri un padre, con lo sguardo assorto e il ginocchio claudicante.
A scrivere una lettera alla vita che dorme accanto.
Ovvero, a sussurrarla…

Caro,
come stai?
Come ci si sente quando il mondo è così grande?
Certo, tu potresti dirmi con tono un po' polemico: "Siamo di memoria corta? Non sei stato anche tu come me? Dove sei nato? Sotto un cavolo?"
Calma, eh? Cominciamo bene, cominciamo, non si parla così al tuo papà.
Che? Non hai parlato? Sono io che mi sono immaginato una tua risposta e ti ho pure rimproverato invano?
Scusami.
In verità so bene di non poter ancora sentire la tua voce, ovvero comprenderla, almeno per ora, ma sai, papà ieri ha avuto un incidente, cerca di capire.
Stai al gioco.
Cosa? D'accordo, incidente è una parola grossa, meglio usare un termine più consono: mi sono infortunato.
Ebbene sì, anche tuo padre, come gli idoli pallonari si è infortunato. Distorsione al ginocchio sinistro, questa è la sentenza.
No, papà non fa il calciatore famoso.
Cos’è quella faccia? Capisco, niente miliardi, goal sotto la curva, biglietti gratis in tribuna vip…
Cosa dici? Perché parlo da solo se tanto non mi puoi capire?
Oh, ma sei pignolo, sai? Devi usare la fantasia, non ci siamo capiti? E' il tuo dono più grande, vedrai quante volte te lo ripeterò.
Allora, dicevo, papà non fa il calciatore.
Quindi niente notizie su tutti i giornali della mia slogatura al quattordicesimo del primo tempo.
Ancora quella risata.
Ragazzino, un po' di rispetto per tuo padre…
Sai? Ci vuole coraggio alla mia età, dopo dieci anni di inattività, ad infilare gli scarpini ancora lordi della terra di quegli anni - non li ho mai puliti, con la vana speranza di fermare il tempo - con i muscoli freddi e le articolazioni anchilosate. Con l'emozione già dalla sera prima in cui sicuramente hai potuto notarmi andare in giro per casa con significative soste davanti allo specchio grande nell'ingresso, già bardato di calzettoni, parastinchi e cavigliere.
No, ma che dici? Alla mia età non si è vecchi, ma cosa vai a pensare…
Perché mi sono fatto male?
Ecco, questa è una bella domanda.
Be’, io un po' di risposte me le sono date. All'inizio ho cominciato con cause esterne, cercando di evitare di puntare il dito su di me: è stata colpa del campo che era pieno di buche, gli scarpini erano troppo stretti e poco elastici per il logorio, il difensore che mi marcava mi ha spinto a tradimento, ecc.
Tuttavia, questa recita ha retto per il tempo di un giorno: ieri.
Oggi, ora, con la gamba bloccata sullo sgabello, non posso negare le mie responsabilità.
Sì, perché è vero che il campo non fosse un granché, ma mi sono fatto male solo io, come mai?
Certo, potremmo addurre alla mala sorte l'intera colpa ma, ripeto, la recita è finita, via la maschera.
Indubbiamente gli scarpini non li usavo da molto tempo, un paio di normali scarpe da ginnastica sarebbero potute andare molto meglio e perlomeno avrei avuto un paio di calzature alle quali le mie gambe sono maggiormente abituate. Tuttavia, non regge nemmeno questa.
Primo, essendo una partita tra attempati, tutti più o meno nelle mie condizioni di scarso livello agonistico, con tanto di scarpini ai piedi, torniamo alla domanda: perché solo io mi sono fatto male?
Eh sì, perché se anche solo uno dei miei compagni si fosse, che so, storto una banale caviglia, recuperabile con tutti gli auguri in massimo tre giorni, ecco, avrei dormito la notte scorsa con meno sensi di colpa.
Secondo, ho giocato con gli scarpini ai piedi per almeno dieci anni, in un tempo che mi sembra ormai preistorico, senza farmi mai male in nessuna parte del corpo, tranne una volta al polso.
Insomma le mie gambe hanno superato indenni numerose battaglie, giocando nel mezzo del centrocampo, da mediano frangiflutti, in altre parole, nel punto più nevralgico del campo e con il ruolo più a rischio di infortuni.
Infine il difensore.
Ammetto pubblicamente che non mi ha nemmeno sfiorato, anzi, in quest'aspetto risiede l'unica mia azione degna di nota in tutta la mia breve partita. Infatti, il tuo astuto papà, con una finta a destra il suo marcatore l'ha spedito a cogliere la classica cicoria e si è ritrovato a sinistra con il pallone sul destro, pronto a tirare in porta.
No, non ho fatto goal.
Scusa, che è colpa mia se io mi sono voltato a sinistra, tutto il mio corpo l'ha fatto, tranne lui?
Sì, lui.
Il mio ginocchio sinistro.
Si è ribellato, meglio, si è ammutinato.
Quindi niente scuse.
Se mi fossi tenuto in forma, continuando almeno a correre, allora…
Lo so, se fossi un calciatore professionista riceverei cure mediche futuristiche, fisioterapie all'avanguardia e l'attenzione di tutti i tifosi, speranzosi della mia guarigione.
Tuttavia, figlio mio, ieri mattina, subito dopo il dolore e la caduta a terra ho avuto in dono due cose, stranamente legate l'una all'altra: una scoperta e un ricordo.
La scoperta di avere un ginocchio sinistro.
Ebbene sì, il tuo papà ha scoperto di possederne solo uno in tarda età.
E' banale ribadire che ci accorgiamo di qualcosa che abbiamo nel momento in cui ci venga a mancare, anche se temporaneamente. Non starò qui a ripeterlo. Ritrovandomi una volta a casa con la goffaggine di saltellare su un piede solo, con la difficoltà di farmi una doccia o un bagno senza avvertire il dolore all'interno della gamba, con l'incapacità ad infilarmi il calzino sull'estremità dell'arto malfermo, e così via, di limite in limite, ho trovato un altro regalo, oltre alla, ripeto, retorica consapevolezza di quanto sia importante ogni parte del nostro corpo: il ricordo.
Il ricordo della mia compagna, tua madre.
Lei che mi è venuta a prendere al campetto e mi ha sorretto fino alla macchina, per portarmi a casa.
Lei che dal momento che siamo entrati mi ha fatto accomodare sul divano e ha pensato a tutto, letteralmente.
Lei che ha cucinato e preparato un vassoio per farmi mangiare senza muovermi dalla mia posizione.
Lei che mi ha accompagnato al bagno tutte le volte che ne avessi bisogno - fino alla porta, eh? - che mi ha portato l'acqua quando ho avuto sete e che mi ha accarezzato e baciato in ogni momento mi sono gettato nel lamento del leone ferito in battaglia, perduto nella più patetica autocommiserazione.
Lei, la tua mamma, che ha fatto tutto questo senza smettere neanche un secondo di rammentare il dono della tua vita dentro di lei, veramente in grado di ascoltarti, dal primo momento che sei entrato in scena.
E da una scoperta e un ricordo è nata una speranza.
La speranza di un'altra scoperta e un ricordo, uniti come una coppia innamorata, stavolta per lei.
Scoprire che tu potrai regalarle il ricordo di me, in ogni attimo capace di supplire a cosa le sarà più difficile, faticoso e, probabilmente, impossibile.
Scoperte e ricordi che sono anche un regalo per te come tu lo sarai per noi.
Lo so, tu ora non hai ascoltato cosa ho detto.
Chissà, forse un giorno qualcuno scriverà queste righe.
Che tu leggerai.

Papà

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