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Storie di scrittori: L'interferenza

L'interferenza

di
Alessandro Ghebreigziabiher


E’ difficile cominciare.
I pensieri e le emozioni non comunicano facilmente tra loro. Che razza di sfiga essere nati umani, eh? Ah, come sarebbe semplice essere una zecca o una zanzara. Chissà poi perché la mia immaginazione ha trovato proprio queste due, entrambe con la zeta iniziale, peraltro. Tuttavia non ho alcuna intenzione di rifletterci sopra o aprire un dibattito intorno alla questione.
Per una volta, cappero, posso dire che non c'è alcuna ragione recondita nascosta in tale scelta? Posso cambiarli, se mi va, posso dire una mosca e un pidocchio.
Ecco, peggio di prima. Perché comunque animali così piccoli? Corbezzoli, ci sto cadendo di nuovo.
In fondo volevo dire qualcosa di poetico, di sentimentale. Come dipingere la mente e il cuore simili a due amici o una coppia che non riesca a parlare facilmente. Troppo diversi, potrebbe essere la banale spiegazione.
Come posso limitarmi a questo?
Vivo in un mondo di teste, parlando di quelle che decidono cosa sia interessante, originale e degno di critica o meno, che odia pubblicamente le banalità. Queste le lascia con snobistico sprezzo ai propri avversari. Coloro che hanno imparato sapientemente a farne tesoro nel modo meno sacro.
No, non sono in grado di accettare una definizione che si avvicini soltanto a tale sostantivo, bandito nei salotti buoni dell'alternativo regno. Non me lo posso permettere.
In fondo è comunque triviale in partenza il mio tentativo: pensieri ed emozioni non comunicano perché non possono.
E ci prendono per il culo coloro che assicurano che siano gli uni o le altre, o tutti e due insieme, a dar vita alle parole del momento, eruttate in diretta, con il massimo della veridicità, nel senso di opportunamente certificata.
Io non ci riesco e quindi…
Ecco, alla fine esco fuori come un megalomane, presuntuoso e antropocentrico. Anzi ‘iocentrico’, misura delle cose dette e non. D’accordo, faccio un passo indietro, potete scusarmi, l’avevo detto prima che è difficile cominciare.

Riccardo aveva un bar.
E alle cinque di mattina faceva freddo, tanto freddo.
Magari erano gli stessi gradi delle otto di sera ma il freddo era diverso.
Era dicembre, appena superata la metà del mese, in pieno clima natalizio.
Quella mattina faceva particolarmente freddo. Forse perché la notte non era stata poi un granché, con quel dolor di schiena che si era affezionato talmente alla sua spina dorsale da non mancare mai un appuntamento nel cuore della notte.
Chissà, magari Daniela ci aveva messo del suo con un mal di testa improvviso, ufficialmente a causa del giustappunto aumentato freddo invernale.
Mal di testa vero, eh? Nessuno vuole insinuare nulla, qui. Ma che volete farci, con quello che si sente dire in giro, soprattutto in tv, Riccardo qualche dubbio se lo era creato. Tuttavia aveva rispettato comunque la buona fede della moglie, con una partecipazione quanto mai convincente ed ammirata verso le sue nuove mutande nere fiammanti.
Inoltre, come la classica ciliegina, si era unito alla festa anche un esemplare di quella brutta razza di incubi che colpisce impietosamente a pochi metri dall’arrivo, un paio d’ore dalla sveglia, costringendoti alle corde con un unico pensiero: Che voleva dire questo sogno? Vorrei dormire per capirci meglio ma non farei in tempo a rimettere a posto le cose dentro la mia testa che le quattro sono… ora.
Drin, drin.
La sveglia di Riccardo faceva drin due volte.
Ovviamente avrebbe ripetuto tale suono per ben sette minuti, come da istruzioni, ma generalmente dal primo drin al secondo l’uomo aveva il tempo di svegliarsi e di stoppare il perfido meccanismo una frazione di secondo prima del terzo.
Puntualmente.
In modo tempestivo.
Amorevolmente.
Come puntualmente, in modo tempestivo, si preoccupava amorevolmente di non far rumore con le ciabatte e lasciare a Daniela il privilegio di altre tre preziose ore di sonno.

Sono un ipocrita.
In effetti ho già iniziato e la sto menando tanto per narcisismo affettivo.
Dicesi ‘narcisista affettivo’ colui che si esibisce giammai per lodi o ammirazione ma per amore dell’amore.
Love for love’s sake.
Baci, carezze, strette di mano, sorrisi ammiccanti, sguardi intensi, insomma, acuta condivisione. Ma anche quella becera, volgare e allusiva, nel modo meno elegante possibile, va bene lo stesso, sai?
L’importante è che ci sia.
Chi? Qualcuno che ascolti, legga, veda. Qualcuno che ricordi. E che dica: ‘Caspita’ o ‘Interessante!’ o ‘Ci devo pensare…’
Te l’ho detto, va bene tutto, basta che ci sia.

Non è vero.
Ecco, forse adesso era la testa a parlare.
Vigliacco di un cuore travestito da pancia, vieni fuori!
Ti prendi le tue responsabilità una volta tanto?
Si sta parlando di te, lo sai?
Sono stufo di prendere le tue parti.
Sii chiaro, stavolta.
Cosa vuoi?
Non vedi che quel presuntuoso si sta prendendo tutto il merito, anche il timone della nave e pure l’ancora?
E così decide di fermarsi o ripartire. E tu? Le cose vanno così per questo. Se tu avessi il coraggio di dire la tua senza quella fottuta paura che tanto dileggi negli altri, di esporti in prima persona senza trovare sempre quell’assurdo alibi della timidezza – che ormai non ci crede più nessuno – per nasconderti dietro la gonna di una mamma che non c’è mai stata, la musica cambierebbe. Oh, se cambierebbe.
Dico la gonna, eh? La gonna non c’è mai stata. Eh, sì, perché la mia vecchia portava i pantaloni, letteralmente senza banali interpretazioni.
Certo…
Perché si possono dire cose banali ma anche fare interpretazioni banali.
Oh, è quella è roba tua, chiaro?
Io sto dall’altra parte. Io esprimo e casomai tu interpreti, analizzi, decodifichi.
Se non convieni… bè, quando cambieremo ruolo mi saprai dire.

La realtà è che Riccardo non era obbligato ad aprire alle cinque.
Le sette potevano essere un buon orario per iniziare a far trottare la macchina del caffè, la cassa, il micro-onde. Ebbene sì, aveva acquistato anche il micro-onde. Lo aveva inaugurato il giorno prima e ne era orgoglioso. Non era effettivamente un oggetto da bar, era più qualcosa di casalingo ma a lui piaceva far sentire un’aria salottiera ai clienti, quell’atmosfera che aveva in testa quando aveva accettato la proposta del suocero di rilevare l’onorata azienda di famiglia.
“Sì, ci sto.”
Così aveva detto dieci anni prima al signor Giuliano ma subito dopo aveva posto una condizione: “Deve essere accogliente.”
Anche sua madre era commerciante. Il papà no, l’uomo allenava una squadra di calcio nel quartiere e lui, anomalia della zona, era invece un maschio verace e popolare che non amasse affatto l’arte della palla che rotola.
A Riccardo piacevano le figurine.
Non tutte le figurine.
Solo quelle dei cavalieri.
Aveva una scatola nella quale fin da bambino raccoglieva figurine di arditi giovani in armature scintillanti o vegliardi alti e fieri in groppa a destrieri bardati come il loro nobile carico.
E per dirla tutta, Riccardo non aveva per nulla un carattere usuale nello stereotipo del cavaliere.
Non era particolarmente coraggioso, bensì affetto da un terrore immenso per i gatti, non aveva un pizzetto regale e tantomeno un’andatura sicura e baldanzosa. Anzi, era basso, con la pancetta del quarantenne, senza ancora esserlo – trentotto e mezzo – e barava a briscola con il figlio.
E quando si passava le immagini nella scatola da una mano all’altra, pensava spesso a quanto diverso fosse il suo mondo da quello degli eroi a due dimensioni che lo fissavano incorniciati.
Ma in cuor suo, sussurrando ogni parola furtivamente, si diceva che se quel mondo fosse stato il suo le cose sarebbero state diverse.
Lui sarebbe stato diverso.
Ne era certo.
Segretamente certo.
Cosa accadeva allora dalle cinque alle sette?

Le parole rotolano.
Al giorno d’oggi le parole rotolano, amico mio.
Sono come uno strano tipo di valanga.
Non come la neve.
Durante la precipitazione, come tu mi insegni, quest’ultima cresce lungo la via fino a diventare troppo grande per non guardarla preoccupato, fa molto rumore e trascina con sé tutto ciò che trova. L’unico nemico è un San Bernardo sobrio e dalla botte piena. Le parole, invece, rotolano e non crescono, rimangono sempre le stesse. Non hanno suono perché esso si deve esclusivamente alla lettura silente o alla pronuncia a voce udibile e da quell’istante smettono di rotolare, la corsa muore. Non trascinano ogni cosa con loro ma qualcuno sì. Una persona, una qualunque. Ad un tratto questi viene ipnotizzato dal vorticoso giro di un insieme di lettere qualsiasi, come salamandra o perspicace – o guerra – e ne rimane incollato. E sai cosa si ritrova a fare come un vero idiota? A rotolare a sua volta.
Ti prego però, dimentica guerra, è stato più forte di me, della mia pancia o della mia testa o di tutte e due. Concentrati su perspicace, anzi troppo significato, fazzoletto, meglio, polenta. Una tranquilla e inoffensiva polenta, con tutto il rispetto per le polente ribelli.
Tanto se vale per polenta è lo stesso per tutte gli altri insiemi di lettere, no?
Insieme di lettere è ancora più generico di parola e questo mi rassicura.
Dicevo che il malcapitato rotola.
Come uno strano tipo di valanga.
Non cresce, anzi perde i pezzi lungo la strada, come le molliche di Pollicino.
Non è proprio rumore quello che fa ma è piuttosto un lamento, non ne ha motivo perché, credimi, è il meglio che gli possa accadere, ma si compiange con l’unico fine di attirare attenzione.
E sai cosa trascina?
Un’altra parola.
Che si mette a rotolare.
E così via.
Finché non giunga un santo di nemico, con la botte rigorosamente vuota a giustificare la fine della corsa e a rotolare per tutti, per la pace di ciascuno di noi, uomini, parole e valanghe.

Alle cinque e un quarto, puntuali come un pignoramento, con le sedie ancora capovolte e aggrappate al tavolo, i tre ragazzi arrivavano.
“Buongiorno”, disse quella mattina Riccardo, salutando per primo.
Di solito lasciava al cliente la precedenza, con il diritto di attesa in quanto padrone di casa.
Ma con loro tre poteva e voleva fare un’eccezione.
“Ciao, Riccardo. Ci fai tre cappuccini?” disse quello basso, con i capelli ricci, Paolo ‘l’ingegnere’.
“Ma va’?”
“Vabbè, che vuol dire?” saltò su Silvano ‘l’avvocato’. “Avremmo potuto cambiare idea…”
“Piantala che sono due anni che venite qui e bevete questo cappuccino.”
“E invece lo sai che oggi stavo per chiederti un succo di frutta?” polemizzò Luigi ‘il medico’.
“Dottore, non dire cazzate e dimmi piuttosto se me l’hai portate.”
“Non l’ho trovate, Riccardo”, rispose Luigi. “Mi dispiace.”
“E sei una fregatura.”
L’uomo tentò un disinvolto sorriso di circostanza ma a dir la verità ci contava. Istintivamente si voltò verso la macchinetta del caffè anche se non v’era un assoluto bisogno. Luigi, dal canto suo, dopo le occhiate di Paolo e Silvano non se la sentì di perpetrare oltre lo scherzo e tirò fuori la voce: “Riccardo, girati un po’?”
Questi si voltò lentamente e gli occhi si accesero come quelli di un eccitato infante di fronte alle tre figurine formato maxi raffiguranti Lancillotto, Artù e soprattutto Riccardo Cuor di Leone, il re. L’aveva persa, quella. Anni prima l’aveva persa. Ora, finalmente, il re era tornato. E non era stato inutile sognare di riaverla, nonostante l’inutile interferenza.
Di un verboso e cervellotico autore.

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