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Blackout

Blackout

di
Alessandro Ghebreigziabiher

 
Aggiustava ascensori.
Questo vorrei che fosse scritto un giorno sulla mia lapide, sotto il nome, e prima dell’ultima data che mi riguardi.
Non tanto per gli ascensori, malgrado sia l’oggetto della nostra quotidiana attenzione a definire più di ogni altra cosa la nostra vita.
D’altra parte, per me è mia figlia Ludovica, va detto.
Ma il lavoro è tanta roba, riempie tutto e succhia via molto, spesso troppo.
Ecco perché devi scegliere con cura non solo di cosa occuparti, ma anche in cosa consista l’azione ripetuta, il gesto fondamentale con il quale dai il contributo alla vita in comune.
In breve, tutto il resto, in una parola.
Aggiustare.
Io devo farlo.

Alessandro Ghebreigziabiher
Significa rimediare, rimettere le cose al posto originale, ovvero un debito che avevo e ora che sono sui sessanta abbondanti spero di essere sulla buona strada nel saldare del tutto.
Sì, perché per la gran parte del primo scorcio della mia esistenza vi era ben altra didascalia a descriverla.
Io rompevo, già.
Il distruttore, così mi chiamavano a casa, familiari stretti e non.
Non c’era meccanismo, dispositivo, qualsivoglia manufatto o industrialmente assemblato che fosse passato indenne tra le mie mani.
Da cui, la missione che mi fregio di compiere quotidianamente.
Perché gli ascensori?
Be’, è facile.
Primo, perché sono grandi e non così semplici come sembrano, quindi l’impresa ne guadagna in peso, ecco.
Secondo, perché con i miei abbiamo sempre abitato al piano terra e fin da piccolo fantasticavo ogni notte su chi abitasse più in alto di noi.
Un po’ come si fa con le divinità, insomma.
Chi sono e cosa faccio, l’ho detto.
Ciò che ancora non ho rivelato è perché sono qui, ora.
Blackout.
Sono qui perché ho bisogno di condividere cosa mi ha mostrato il buio, quest’oggi.
Al mattino, proprio all’ora di punta, ho ricevuto una chiamata urgente da un edificio di mia competenza.
Così, prendo le borse con gli attrezzi e mi reco sul luogo del delitto.
Mi piace chiamarlo così, mi fa sembrare degno di un film o una serie tv.
Al meglio, di una storia.
Una volta giunto all’ingresso di un palazzo di almeno dieci piani, piuttosto vecchio, situato in un quartiere alquanto trascurato all’estrema periferia della città, una signora decisamente in carne mi aggiorna sul caso.
Non c’è corrente e l’ascensore è bloccato tra il settimo e l’ottavo piano, apprendo dalla mia nuova informatrice traducendo all’impronta, al netto del dialetto locale e di una rumorosa zeppola.
Così, salgo le scale con solerte celerità e individuo il sito incriminato seguito dal donnone.
Signora, avverto la tipa, si allontani, per la sua sicurezza.
Lo dico sempre, è una balla, ma ho bisogno di lavorare senza essere osservato.
Non mi piace avere pubblico, malgrado sia ormai demodé, oggigiorno.
Quindi, rassicuro le persone intrappolate nell’oscurità e inizio a darmi da fare.
Ordinaria amministrazione, un lavoretto semplice, non è vanteria, un intervento di routine.
Quello che non lo fu affatto è stato ciò che hanno colto le mie orecchie prima e i miei occhi poi.
“Signorina, potrebbe abbassare il volume di quell’aggeggio infernale?” fa una voce maschile, dall’accento straniero.
“Ma come fa a sentire? Ho la cuffia…” ribatte la giovane meravigliata.
“D’accordo, ma si sente lo stesso”, rincara la dose l’altro uomo presente.
Uff, abbasso, okay?”
“Come hai detto, ragazzina?” esclama il primo, che chiamerò così per semplicità.
“Già, ripeti un po’?” incalza il secondo, tale per il medesimo motivo.
“Ho detto che abbasso…”
“No, prima.”
“Esatto, prima.”
“Non ho detto niente…”
“Niente? Ti ho sentito sbuffare.”
“E non negarlo”, è pronto a testimoniare l’altro.
“Chi lo nega? Ma lei mi ha chiesto cos’ho detto, sbuffare non è mica come parlare…”
“Ecco!” salta su iroso il primo. “Questo è il risultato, fanno come gli pare, i genitori senza valori e autorità, e questi qui comandano. Le femmine, poi…”
“Femmine a chi?” replica piccata la ragazzina, per nulla intimorita, nella quale mi sembra di riconoscere il pepato carattere di Ludovica, aspetto che peraltro adoro.
“E come si vestono”, la ignora il secondo, approfondendo il tema. “Poi si lamentano se…”
“Esatto, poi la colpa è degli altri se succede loro qualcosa.”
“Addirittura dei genitori…”
Al se, con tanto di sospesi puntini, la mia favorita riporta il volume della musica in cuffia al livello iniziale e saggiamente decide di non dare ulteriore attenzione ai due, i quali, fino al momento in cui sono riuscito ad aprire le porte, hanno continuato a sproloquiare sulla corruzione giovanile, in particolare del cosiddetto gentil sesso.
Quindi, una volta dischiuso il sipario dell’ascensore - teatro dal vero, quindi all’inverso - per quanto esigua, la luce ha raggiunto i loro volti, così come il silenzio.
Lasciandomi altrettanto senza parole.
Basito ho visto quindi sfilare accanto a me un’adolescente dai capelli rossi e gli occhi tenaci, e i due uomini.
Ovvero niente di più lontano, nel racconto globale.
Un signore anziano, dalla carnagione assai scura e dal barbone folto e minaccioso.
E un altro, non meno giovane, dalla pelle candida, la crapa pelata e gli occhi piccoli.
Benedetto blackout.
Forse, ogni tanto, per aiutarci a capire meglio chi siamo davvero.
Dovremmo tutti restare un po’ al buio.



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