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Hai bisogno di qualcosa?

Hai bisogno di qualcosa?

di
Alessandro Ghebreigziabiher


Si sogna, sovente si dimentica di averlo fatto, ma talvolta qualcosa sopravvive al mattino.
Di frequente sono gli incubi più terribili a vedere la luce del giorno, ma talvolta anche alcuni bei sogni varcano la soglia della coscienza e sono quelli più vividi, malgrado improbabili, con accenni di realtà che spesso risulta più tangibile perfino di quel che effettivamente tocchiamo ogni giorno con mano.
Succede lo stesso con alcune storie e alla fine della fiera non sai più se hai sognato, ovvero solo letto uno strano racconto.
Questo è ciò che accadde a Samuele, undici anni e una immaginazione piuttosto vulnerabile innanzi alle fantasticherie che ci circondano quotidianamente.
Quella domenica aveva trascorso buona parte del pomeriggio in ospedale per visitare la nonna, novant’anni e un destino ormai segnato dal solito, impietoso tumore.
La cosa buona era che tutti i suoi figli, e gran parte dei parenti, le erano vicini, ad accompagnarla nell’ultimo tratto di vita.
La sera, dopo aver cenato e visto un po’ di tv con i suoi, il ragazzino andò a dormire alquanto carico di pensieri.
Spense l’abat-jour, chiuse gli occhi e dopo pochi istanti prese sonno.
La fase REM non ci mise tanto ad andare in scena, con il capocomico inconscio a guidare la sua sorprendente compagnia teatrale di ricordi e fantasie. Perché, non dimentichiamolo, a undici anni i sogni hanno una potenza tale da far spettacolo, questo è indubbio.
“Benvenuto, dottore”, gli disse una volta aperto il sipario del suo cervello una signorina di bianco vestita che tanto assomigliava all’infermiera che accudiva sua nonna. “L’accompagno per la consueta visita.”
Samuele accettò senza discutere il ruolo assegnatogli dalla sua psiche.
Perché, non dimentichiamo anche questo, a undici anni il coraggio di mettersi in gioco è altresì spettacolare.


Alessandro Ghebreigziabiher

“Questo è un ospedale, giusto?” chiese per essere sicuro di dove si trovasse.
“Certo, dottore. Siamo nella clinica dei bisogni al contrario.”
“E io sono il dottore.”
“Sicuro, lei non è mica un adulto, come i nostri malati.”
“Non abbiamo pazienti bambini?”
“Dottore, scherza? Voi siete gli unici che possano curare i grandi.”
Samuele non capì cosa la ragazza intendesse, ma era solo questione di tempo prima che avesse tutto chiaro.
“Venga, che le faccio incontrare i nostri ospiti.”
Entrarono in una camera, anch’essa molto simile a quella della nonna, dove c’era un tizio davanti al computer che non faceva altro che parlare di andamento della borsa e di azioni.
“Come lei ben sa, dottore”, disse l’infermiera, “qui noi curiamo i bisogni travisati. Quest’uomo è convinto che sia la natura ad aver bisogno di noi, quando è esattamente il contrario. Per questo perde il suo tempo a far soldi, invece di curarsi dell’ambiente.”
Il secondo malato era un tizio che con calce e mattoni era intento a tirare su muri dopo muri intorno a sé.
“Quest’uomo, invece, crede che siano le genti che vengono da lontano ad aver bisogno di lui, ignorando che è esattamente l’opposto. Perché l’umanità è tutta quella che bussa alla tua porta, senza la quale sei come un deserto senza fine, dove i miraggi sono tutto quello che ti rimarrà tra le mani alla morte.”
Il terzo paziente era invece un tizio che aveva infilato la testa dentro un monitor, come una specie di casco da sub.
“Lui è il più folle”, disse la ragazza, “perché si è persuaso di non aver bisogno di ascoltare il prossimo, e che siano solo gli altri ad avere questa necessità. Come se la sua voce sia tutto, e tutto sia il nulla che da essa dipende.”
Un altro ancora nuotava in una vasca da bagno ricolma di cellulari, ed era l’uomo che riteneva di avere assoluto bisogno di un telefono per incontrare il prossimo, trascurando la beffarda realtà.
“Quale?” chiese Samuele.
“Semplice, dottore, lei dovrebbe saperlo meglio di me. Sono gli oggetti di cui gli adulti sono ossessionati ad aver bisogno di loro, invece che l’inverso.”
E così via, il viaggio proseguì all’interno della clinica dei bisogni al contrario, dove i grandi venivano curati per le loro assurde contraddizioni.
Quindi, alla fine del giro - e del sogno – il nostro fece la domanda più importante.
“Perché il dottore sono io?”
“Perché solo un bambino, il quale ha bisogno di tutto il meglio che i grandi possano offrirgli, è in grado di ricordar loro l’importanza di accogliere i doni della vita e riconoscerli qualora si palesino.”
Musica, sipario, e luce del sole attraverso le tende della finestra.
Samuele sollevò le palpebre e senza indugio corse in cucina, dove la mamma stava preparando la colazione.
Le si avvicinò, le disse buongiorno, la donna rispose al saluto, e poi, posando delicatamente la mano sulla sua, il bambino le sussurrò: “Mamma...”
“Sì, caro?”
“Dimmi, hai bisogno di qualcosa?”
 

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