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Storie di immigrati: le tre domande

Le tre domande


di
Alessandro Ghebreigziabiher



E’ un sogno, pensò lui.
Dev’esserlo, sperò, più che altro.
Lei era lì insieme all’altro, ai piedi del suo letto, come nelle favole di una volta.
Permettimi uno sfogo, disse lei.
L’altro rimase in silenzio.
Lui non rispose.
Non avrebbe potuto nemmeno se lo avesse voluto davvero.
Neppure se fosse stato sveglio.
Sono stanca, dichiarò lei.
Io sono stanca, ripeté. Perché tu non lo sei?
Questa è la mia prima domanda.
Come fai a non esaurire la voglia di tutto questo?
Come fai a pronunciare ancora tali parole?
E le hai dette, non negarlo, oh se le hai dette.
Senza andare troppo lontano, dicesti che gli ebrei, in fondo, se lo meritano l’inferno, per quello che hanno fatto a nostro signore, perché sono attaccati ai soldi, che vivono solo tra di loro e non si integrano.
Dicesti anche che, dopo tutto, gli africani hanno fatto un affare a essere catturati e portati nel nuovo mondo, perché qui hanno sofferto, certo, ma chi non soffre nella vita? Ma poi hanno ottenuto un pezzo di terra e il sole e l’acqua per farla fruttare.
Hanno comunque trovato l’America.
Dicesti perfino che gli indiani, sì, gli indiani, non i nativi, in fondo e dopo tutto, sono comunque destinati a scomparire, perché il futuro è degli esseri più evoluti.
Che il genocidio, se lo guardi dall’alto, non è altro che una delle mille facce della normale selezione naturale.
Lo dicesti, anche se non lo rammenti o lo attribuisci a coloro che chiami i cattivi della storia.
Ma io ricordo, è più forte di me. Ci provo a dimenticare, non sai quanto mi impegni in questo.
E la sai la vera beffa?
Proprio quando sto per riuscire a voltarmi dall’altra parte, ecco che arrivi tu a riportarmi indietro.
Avanti e indietro.
Questa è la mia condanna.
Si era parlato di uno sfogo, ma non è di questo che mi lamento.
Faccio il mio lavoro da sempre e non mi sono mai astenuta.
Ovvero, di rado sì, ma l’assurdità era troppa e ho esitato.
Tu hai gridato al miracolo, come fai di solito quando non capisci un cappero, e io ho solo sorriso.
La seconda domanda è chi sei tu, davvero?
So chi sono, la mia natura è semplice e i doveri che ne conseguono li ho accettati senza fiatare.
Sebbene con estrema fatica, ho compreso anche le ragioni dell’esistenza della creatura al mio fianco, qui, malgrado non mi piaccia affatto quel che ho visto e vedo ancora oggi.
Ma quali sono i motivi della tua presenza in questo mondo?
Perché, alla fine di tutto, sono io ad accogliere sempre, senza se e senza ma, le anime segnate, le cui sventure non manchi mai di maledire come immonde, rigorosamente in tempi ormai inutili.
Sono io che non faccio differenza alcuna tra di loro, laddove ti dimostri talmente sfacciato da discriminare tra cadavere e cadavere e al contempo sgolarti in sentiti inni all’uguaglianza.
Sono solo io che ho il buon gusto, se non l’umanità, che sarebbe l’ennesimo paradosso, di rimanere in silenzio innanzi alla luce che è affondata. O che addirittura sta affondando proprio in questo momento.
Perdonami la libertà che mi sono presa, dalla quale so bene ti affrancherai con non chalance all’indomani.
Me ne vado, disse lei. E l’essere umano al mio fianco verrà con me come previsto.
Come già scritto e letto, raccontato e ascoltato.
La terza domanda è tutta tua.
Il giorno dopo lui si svegliò confuso e agitato molto presto, ma in qualche modo felice di ritrovare le sottovalutate amenità del vivere. Come un letto comodo, la luce che si accende e le pantofole in fedele attesa sul pavimento.
Così, come lei aveva previsto, dimenticò nel giro di un caffellatte con brioche la visita della morte e del migrante al suo fianco.
Tuttavia, come altrettanto ella aveva annunciato, una domanda sopravvisse all’incubo, un racconto orribile dove convincersi che è tutto normale e inevitabile, che le vittime sacrificabili faranno sempre parte del quadro generale e che, in fondo, dopo tutto, se la sono cercata.
Ma allora perché, sempre in fondo, ancora dopo tutto, lui ha una fottuta, insopportabile paura nel cuore?

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