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Storie di razzismo quotidiano: Il mio nemico

Il mio nemico

di
Alessandro Ghebreigziabiher



1

“Glielo dico io, non preoccuparti”, dichiarò con distacco Benni.
“Sei sicuro?” domandò la dottoressa Diop, estremamente lieta di privarsi di quell’oneroso compito. Era da un po’ che lavorava nella clinica e, sebbene oncologia prevedesse quel tipo di doveri da parte dei medici più spesso di quanto si possa pensare, non le era ancora capitato di dover informare il proprio paziente di turno che l’avviso di sfratto fosse imminente, per usare un comunque morbido eufemismo.
Benedetto dottor Benni, primario del reparto, nonché dirigente della clinica stessa. L’uomo, dall’alto della sua esperienza, si era offerto con estrema autorevolezza di toglierla dallo sgradevole impaccio. Tuttavia, cosa che la donna registrò più chiaramente qualche ora dopo, mentre lasciava andare i pensieri intrappolata in auto nel traffico della sera, aveva letto anche qualcos’altro nello sguardo del suo superiore. Un qualcosa di privato, un proprio segno di distinzione personale che aveva a che fare più con il carattere che con la sua professione. Il dottor Benni aveva rilassato ulteriormente le spalle sullo schienale della comoda poltrona e aveva invitato la Diop a far entrare i coniugi Norcini.
Achille, padrone di casa dell’annerito bilocale in cui il signor cancro si era da non poco insediato, avanzò per primo nella stanza. Cinquantanove anni, in soprappeso ben visibile, tanto nella pancia quanto nell’andatura goffa e ingombrante, occhi azzurro spento e barba incolta, unici peli superflui sul viso, dato che il cuoio capelluto era ormai rimasto solo cuoio.
Dalia lo seguiva un passo più indietro. La donna, leggermente più giovane del marito, sembrava dimostrare il contrario. Piuttosto magra, rinsecchita ad essere onesti, con i capelli grigi e le sopracciglia troppo folte. Il primario li osservava in silenzio, mentre l’uomo, senza neanche il benché minimo cenno di saluto, raggiunse una delle due poltrone situate innanzi alla scrivania e lasciò andare il proprio didietro su quest’ultima, mettendola a dura prova.
La moglie guadagnò molto più guardinga la sua. Fissava diffidente il medico e, dopo avergli lanciato un’occhiata veloce, mormorando qualcosa di incomprensibile, si sedette anch’ella in attesa. Benni prese in mano il referto delle ultime analisi e, dopo essersi schiarito la voce, cercò di andare dritto al punto, saltando ogni preambolo: “Signori, devo comunicarvi che…”
“Sono contento”, lo interruppe l’uomo. “Sono contento che si occupi lei della mia pratica.”
“Non capisco…” osservò confuso Benni.
“Sia chiaro, eh?” proseguì l’altro. “Io non ho nulla contro quella gente. Quando sono bravi, sono bravi come tutti, questo lo so bene.”
“Scusi”, fece il primario, che iniziava ad intuire qualcosa, “ma di quale gente sta parlando?”
“Su, che ha capito benissimo. Cioè, io non ho alcun motivo per criticare quella donna, è sempre stata educata. Vero, Dalia?”
La moglie annuì, senza parlare.
“Senta”, commentò irritato il dottore, “vuole spiegarsi meglio?”
“D’accordo”, replicò il signor Norcini altrettanto seccato, “parliamo chiaro. Qui si tratta della mia salute, cazzo. Se permette, quando è in gioco la pellaccia, chi vorrebbe metterla nelle mani di un muso nero?”
Il dottor Benni era allibito. Non si aspettava proprio di trovarsi davanti addirittura due esponenti del Ku Klux Klan… Perlomeno non nel suo ufficio, all’inizio del terzo millennio.
Inspirò profondamente, come gli aveva insegnato la maestra di Yoga, nonché la donna con la quale aveva una relazione da un mese a quella parte, e provò a chiarire la questione: “Signor Norcini, immagino lei si stia riferendo alla dottoressa Diop, dico bene?”
“Esatto”, confermò lui schioccando rumorosamente la lingua, “la negra.”
“Signore”, esclamò Benni alzando notevolmente la voce, “la pregherei di non esprimersi in questo modo parlando di una nostra valente collaboratrice. Sono stato chiaro?”
“Ehi”, fece l’uomo sinceramente sorpreso, “si calmi! Cosa le ha preso? Non mi dica che lei è uno di quelli…”
“Quelli chi?”
“Ha capito perfettamente: quei culattoni amici dei neri. Dalia, ma tua sorella non ti aveva detto che questa era una buona clinica?”
La donna annuì nuovamente con sguardo defunto.
“Non c’è bisogno che lo chieda a sua moglie”, disse Benni spazientito, “glielo garantisco io che questa è una buona clinica. Buona e moderna. Senza pregiudizi, va bene?”
“Va bene, va bene”, rispose Achille grattandosi vistosamente la pancia, “ho capito…”
Il primario era sbigottito, tuttavia i suoi occhi tornarono all’oggetto dell’incontro di quella mattina.
Rilesse attentamente il referto e poi spostò il proprio sguardo sui due, in particolare sull’uomo.
Pochi secondi e colpì senza indugio: “Signor Norcini, mi dispiace comunicarle che lei ha un cancro ai polmoni. E’ maligno. Le metastasi sono ormai in stato avanzato.”
Achille rimase impassibile, mentre solo in quell’istante gli occhi di Dalia sembravano vedere effettivamente la scena innanzi a lei.
“Quanto mi resta?” chiese l’uomo un attimo dopo, con grande freddezza.
“Al massimo sei mesi.”
“Tutta colpa di quella sporca negra…” esclamò il signor Norcini alzandosi in piedi e dando un calcio al cestino dell’immondizia che era accanto a lui.
“Ma cosa fa?” saltò su il primario.
La moglie cercò di calmare il marito mettendogli una mano sul braccio e l’uomo, di tutta risposta, le mollò un violento ceffone sul viso.
Il dottore era senza parole.
Achille si voltò e uscì senza parlare, seguito da Dalia a testa bassa.



2

Qualche ora più tardi il dottor Benni era immerso nell’unico mare capace di lavare via i pensieri del momento.
Il suo ardore era da poco scivolato tra le grazie di Cindy, o per meglio dire, il morbido abbraccio di quest’ultima lo aveva avvolto con consapevolezza, come del resto la donna certificava dall’alto della sua maturata arte della coltivazione del momento presente. Alla perfetta unione, ella sembrava arrivarci molto prima dei ‘propedeutici preliminari’ - come li chiamava lui - capace di espandere il dopo ancor meglio del prima, grazie all’attenzione per l’ora.
Era uno spettacolo, questo si diceva Benni come ultimo pensiero razionale, quando la donna iniziava a danzare come una virtuosa del ventre. Quest’ultimo e tutto il resto sembravano armonizzarsi, in quell’attimo. E solo in quel preciso istante, il nostro riusciva a liberarsi della memoria.
Si alzò dal letto verso le tre del mattino. Gli sembrò di essere stato destato come da un’improvvisa sveglia, insolitamente programmata per quell’ora. Tuttavia non era stata una normale suoneria a rubarlo al sonno, bensì un’immagine. Un viso, ad essere precisi. Quello dell’odioso, malgrado condannato dal cancro, Achille Norcini. Ma c’era anche un suono di sottofondo. Pure quest’ultimo faceva parte del pacco dono piombato nella sua mente nel cuore della notte. Non il ricordo delle offensive parole dell’uomo, piuttosto un altro, forse meno fastidioso: lo schiocco della lingua che Norcini produceva meccanicamente. A pensarci bene, si rammentò che l’insopportabile rumore aveva iniziato a rintronare nella sua testa sin dalle prime ore di sonno. Doveva rimediare assolutamente.
Scese in studio, prese l’agenda e trovò facilmente il numero desiderato. Sollevò la cornetta del telefono, digitò le cifre e attese. Se avesse potuto vedere in uno specchio gli occhi che si erano accesi in lui in quell’istante si sarebbe spaventato non poco. Dopo il settimo squillo una voce roca si fece sentire: “Chi è?”
Nessuna risposta.
“Chi cazzo è?” esclamò nuovamente Achille nel silenzio del proprio appartamento, svegliando del tutto Dalia, nonostante la solita robusta dose di tranquillanti.
“Sono un negro, signor Norcini”, disse la voce nella cornetta.
“Chi cazzo sei?” ripeté l’uomo incollerito e agitato allo stesso tempo.
“Mi sente, signor Norcini? Ho detto che sono un negro.”
“Che cazzo vuoi da me?” gridò Achille. “Chi ti ha dato il mio numero?”
“Non è importante chi le abbia dato il mio numero. Ciò che conta è che io voglia parlarle. E anche lei vuole farlo, non è vero? Anche lei muore dalla voglia di incontrarmi. Di parlare dritto in faccia ad un vero negro, da bianco a negro, e non nascosti da una normale funzione, come il pieno dal benzinaio o la spesa dal droghiere. Lei vuole qualcosa di più, dica la verità. Lei vuole avermi davanti senza una giustificazione plausibile, fermo sulla sua strada, lì ad intralciare il suo cammino. Questo è quel che vuole: un pretesto per investirmi. Per passare sotto le ruote della sua macchina l’inerme immigrato. Lei vuole il suo nemico. Lo ammetta.”
“Ma che cazzo dici?” ripeté ormai monotono il signor Norcini, meno infuriato e sempre più scosso, spaventando sua moglie. “Vai a fare in culo!” gridò e interruppe bruscamente la comunicazione.



3

Benni rimase immobile con la cornetta del telefono incollata all’orecchio. Era sudato ed eccitato, mentre il cuore andava a mille. Gli fu difficile riconoscerlo, ma era contento. Ed era durata troppo poco.
Pochi istanti e rifece il numero.
“Pronto…” fece Achille dopo qualche squillo.
“E’ inutile che dica pronto, signor Norcini,” fece la voce. “Non perdiamo tempo. Lei sa benissimo chi sono.”
La mano dell’uomo iniziò a tremare.
“Senti”, disse a voce bassa, “si può sapere cosa cazzo vuoi da me?”
“Da lei? Io non voglio nulla da lei, signor Norcini. E’ lei che vuole qualcosa da me. Io sono un extracomunitario. Sono la sua più adorata ossessione, sono il suo bersaglio amato, sono il centro della sua vita. Sono il suo avversario, sono il responsabile delle sue sfortune, di tutti i suoi mali, compresa quella merda che si sta nutrendo delle sue carni. In questo preciso istante, ora.”
Achille rimase per un attimo senza parole, fermo sulle ultime pronunciate dall’intrusa voce e, nonostante fossero risultate piuttosto dolorose, ebbe la lucidità di riflettere.
“Come fai a sapere queste cose? Come fai a sapere del cancro? Sei dell’ospedale? Chi cazzo sei? Sei un amico della negra, eh? Sei suo marito?”
Benni non rispose. Non si era preparato a rispondere a quella domanda e, ad esser onesti, in quel preciso momento non aveva la più pallida idea di quale fosse la verità. In altre parole, non sapeva neanche lui cosa stesse parlando in sua vece, quella notte, quale suo lato avesse preso il sopravvento, come in una specie di possessione.
“Chi sei?” gridò Norcini nel silenzio della propria casa, mentre sua moglie Dalia, ormai sveglia del tutto, aveva preso a tremare atterrita.
“Immigrato di merda, avanti, parla! Che cazzo vuoi da me, eh? Che cazzo vuoi?”
“Non alzi la voce, signor Norcini”, disse la voce, con estrema calma, “non le servirà, mi creda. I suoi insulti sono praticamente inutili. Può chiamarmi come vuole. Sono io il primo ad ammetterlo. Sono un negro, sono il suo nemico, sono qui per lei, stanotte. E’ la sua occasione di sfogarsi, lei è il carnefice ed io la vittima. E’ tutto scritto, è ciò che lei ha sempre sognato, non dica di no. Non la perda questa chance, poiché - come ben sa - non le resta molto tempo, ormai.”
Stavolta fu Achille a rimanere senza parole, stretto tra i continui e dolorosi riferimenti al cancro appena scoperto.
“Senti”, fece stancamente. “Se è uno scherzo….”
“Uno scherzo? Signor Norcini, no… non è uno scherzo. In questo mondo, noi extracomunitari non scherziamo facilmente laddove si parli della nostra carnagione, questo anche un minorato come lei dovrebbe comprenderlo.”
“Ma come ti permetti? Brutto figlio di puttana, io ti…”
“No”, lo interruppe bruscamente la voce, “il mio non è uno scherzo, ripeto, come non lo è quel che sta accadendo ai suoi polmoni. Lo sa che succede quando il cancro è in stato avanzato nel corpo umano? Ne diviene il padrone. Lui è il padrone e lei lo schiavo. E sa cosa fa il padrone che vive dentro di lei? Mangia, ha fame e si nutre del suo schiavo, vive alle sue spalle, lo sfrutta, finché la vittima non ne ha più, finché la sua esistenza non serve più allo scopo.”
“Smettila, bastardo!” urlò Achille con tono lamentoso.
“Certo, la smetto, non si preoccupi. Voglio solo ricordarle, però, che quell’ammasso scuro di catrame e fango che pulsa nel suo petto, che la sta divorando avidamente da dentro, è molto più nero di me e altrettanto più giusto. Quello schifo, che un giorno non molto lontano la manderà all’inferno, l’ha creato lei stesso, grazie alla merda con la quale ha infarcito i suoi inermi polmoni in questi anni, andando forse ad equilibrare quella che abbondava già nel suo cuore. Sì, questa è la conseguenza per aver fatto entrare tanta merda dentro di lei e per averla allevata come un padre. Quel cancro è molto migliore di lei, signor Norcini. Quel cancro che la sta uccidendo è la cosa migliore che ha dentro.”
Achille tremava e sudava freddo, incapace di proferire parola.
“Avanti, signor Norcini. Non ha nulla da dire al suo nemico? Sono qui per lei, coraggio. Dimentichi per un attimo tutte le cose che le ho detto e mi renda all’istante colpevole di tutto. I suoi polmoni sono sporchi, proprio come me, non è vero? E’ tutta colpa mia, no?”
“Maledetto!” gridò all’improvviso l’’uomo con quanto fiato avesse in gola. “Maledetto…”
E attaccò il telefono con inaudita violenza.



4

Ciò che seguì, quella tragica notte, fu veloce e lento allo stesso tempo, come solo l’orribile di questo mondo sa essere.
Achille Norcini rimase per qualche interminabile minuto seduto sul letto, con i piedi nudi sul freddo pavimento. Dalia osservava in silenzio la sua nuca. Non aveva idea cosa avesse detto lo sconosciuto al telefono, eppure una paura tremenda si era impadronita di lei.
Quindi il signor Norcini si sollevò di scattò per piegarsi sulle ginocchia e prendere qualcosa da sotto il letto.
“A-Achille…” balbettò la donna terrorizzata. “Cosa fai?”
L’uomo non rispose. La fissò con sguardo quasi assente e prese il soprabito da una sedia. Poi uscì dalla stanza, tenendo ben stretto il fucile tra le mani.
Qualche ora dopo, la dottoressa Diop, l’orgoglio del marito e la gratitudine del bambino che aspettava in grembo, arrivò con la sua auto nel parcheggio dell’ospedale.
Non fece caso a quella Ford vicino all’albero. Non avrebbe potuto poiché, proprio quando scese dall’auto, le squillò il cellulare. “Sì, Marcus?” fece tirando su una calza.
“Lisa, volevo dirti che ti amo, non te l’ho detto, stamattina…”
“Anch…”
Sfortunatamente non riuscì a finire la frase, nemmeno quell’inconfondibile parola, il cui seguito arrivò alle povere orecchie del futuro padre come un tremendo urlo.
Altro che Home Theatre, provate ad usarlo dal vivo e vedrete che effetti.
Questo diceva la pubblicità sullo scaffale dell’armeria dove Achille Norcini aveva comprato l’arma. All’epoca, ovviamente, non aveva la più pallida idea che la prima volta che avrebbe tentato di usarla sarebbe stata per sfondare letteralmente il cranio di una donna incinta di neanche due settimane.
Tentativo fallito, fortunatamente.
Il marito di Dalia osservò per qualche istante la donna con il fucile spianato su di lei, mentre alcuni dipendenti dell’ospedale erano usciti per vedere cosa fosse accaduto.
Quindi rientrò nella Ford al posto di guida, infilò lentamente la canna in bocca e si accinse a far fuoco.
Ci sarebbe di sicuro riuscito, se non avesse ascoltato la voce della donna che lo chiamava al di là del vetro dell’auto.
Norcini si voltò verso di lei, fissò i propri occhi nei suoi e allontanò l’arma da sé.
La dottoressa Diop aprì lo sportello, aiutò Norcini a scendere e lo accompagnò in ospedale sotto gli sguardi ipnotizzati dei presenti.
E’ proprio vero che molti di noi non potrebbero sopravvivere senza di loro.
I tanto odiati nemici.

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