Mi hanno espulso
di
Alessandro Ghebreigziabiher
Un incubo.
Questo è un incubo, ma da svegli.
Magari stessi ancora dormendo, darei qualsiasi cosa per trovarmi in uno di quei racconti, dove poi aprire gli occhi e tutto torna come prima.
Rivedo ancora la scena come se fosse adesso, di nuovo, e di nuovo ancora.
Sono in casa, tranquillo, fiducioso che la porta e le pareti mi proteggeranno.
Perché là fuori c’è pericolo, questo mi hanno insegnato, ed è ciò che condivido ogni giorno con i miei pari.
Il male si annida tra le pieghe di quel che ignoro e che è diverso da me, questa è la sola notizia da diffondere in ogni angolo del cervello come in ciascuna trama del cuore.
A un tratto sento urla oltre l’uscio, chiamano il mio nome senza nominarlo, ma so che sono io, so che è di me che stanno parlando, che sono colui che stanno cercando.
Non al terzo, neppure al secondo, bensì la porta cede al primo colpo, mostrandomi all’istante quanto fossi illuso di essere al sicuro.
In poche frazioni di secondo loro sono intorno a me.
I guardiani del sacro, invalicabile confine mi fissano torvi, quando in un sol coro esclamano la più severa sentenza: “Tu sei espulso.”
“Ma come?” saltò su immediatamente. “Ci dev’essere un errore...”
E vado avanti così, come se parlassi con me stesso, declamando a voce alta il fido manuale, nel vano tentativo di ricordare l’ordine delle cose, il mio.
Io sono un cittadino con tutti i crismi.
Io sono nato in questo paese da genitori nati in questo paese.
I cui avi hanno le loro radici saldamente piantate in questa terra.
Io parlo la loro lingua.
Seguo le loro tradizioni.
Il loro credo è il mio.
La mia cultura è pura e incontaminata.
Identica a quella che mi è stata affidata alla mia nascita.
Sono un patriota.
La mia vita lo dimostra.
Quotidianamente mi ergo quale baluardo instancabile a difesa del prodotto locale e dei valori tramandati.
“Tu sei espulso”, ripetono indifferenti i miei inaspettati carcerieri.
“Ma è un equivoco”, ribatto con ritrovato vigore.
E poi proseguo di nuovo accorato, affidandomi al copione con cui ho costruito l'immaginario personaggio chiamato identità nazionale.
La mia carnagione è quella giusta.
I miei occhi sono riconoscibili.
I miei lineamenti sono popolari.
Così come lo sono quelli delle persone che ho scelto come amici.
Coloro per i quali ho riservato la mia predilezione.
Non ho mai tradito la mia razza.
Il mio sangue.
Le mie speranze.
I miei bisogni.
Il mio tempo.
La mia coscienza.
Tutto questo, e anche il resto che compone ciò che sono, non l’ho mai mescolato con quelli, gli altri.
Ciò malgrado, come se le mie parole fossero insignificanti granelli polvere persi nel vento, gli agenti senza volto ma dalla divisa inconfondibile mi prendono per le braccia e mi conducono al limitare del mondo.
Mi trovo ancora lì, oltre le invisibili barriere che io per primo ho innalzato, a riflettere sulle ragioni del mio esilio, che come un’eco senza fine mi hanno condannato.
Tu sei espulso, perché per difendere ciò che dici di essere.
Non fai più parte del genere cosiddetto.
Umano.
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